A Majano tra le macerie dei condomini dopo le urla calò il silenzio

MAJANO. Il suo racconto inizia dal salotto di casa dove si trovava il 6 maggio 1976 e dove ci ha accolto per dirci che il caffè che avrebbe dovuto bere quella sera non fu mai servito. Alle 21 e una manciata di minuti la serenità familiare fu interrotta da un boato, «mia moglie disse “il terremoto”, uscimmo tutti a fatica perché non si stava più in piedi.
Le case si inclinavano su entrambi i lati e io pensavo: «Si apre la terra». Schiratti e la sua famiglia restarono impotenti. Le case che avevano visto ondeggiare erano crollate, si chiedevano come avevano fatto a uscire vivi da quel disastro. «Non sapevamo cosa fare, per un attimo sentimmo chiamare e urlare poi più nulla, calò il silenzio».
Si contarono e capirono che mancava il figlio Carlo, era andato in palestra per un allenamento di pallavolo e non sapevano se era vivo o morto. La moglie andò a cercarlo, ma fatti due passi tornò indietro a chiamare il marito: «Sento gridare Arduino, ma non lo vedo. È pieno di fumo».
Arduino era un ottantenne che viveva solo in una casa poco più avanti. L’uomo aveva sentito il boato, era uscito, ma era stato bloccato dal crollo dell’edificio costruito con sassi rotondi. «Era seppellito in piedi, iniziai a rimuovere i sassi, gli liberai la prima gamba e cercai di sollevarlo, urlò. Capii che aveva le costole rotte. Allora gli liberai anche l’altra gamba e lo sedetti in giardino.
Cercai aiuto tra i vicini, demolimmo il cancello e portammo sulla strada Arduino che poco dopo venne trasportato da un’ambulanza all’ospedale di Palmanova. Arduino non tornò più a Majano, è morto un mese dopo. Il suo nome - afferma con dispiacere Schiratti - non comparse mai nell’elenco dei morti».
In centro anche il figlio Carlo si era imbattuto in una scena analoga: vicino alle scuole, un condominio diviso in due blocchi uniti dalla scala era rimasto in piedi nonostante all’estremità avesse un’apertura larga 30 centimetri. «Una donna urlava non riusciva a entrare in casa perché un armadio glielo impediva. Mio figlio - continua Schiratti - salì sul terrazzo, spaccò un vetro e recuperò il bambino».
I condomini crollati. In via Roma e in via Udine regnava il buio. I condomini di quattro piani “Astra” e “Udine” erano crollati. Il terremoto distrusse anche la modernità che non resse alla forza ondulatoria e sussultoria del terremoto. La distruzione dei condomini ultimati nel 1967, con le loro 34 famiglie, fu presa a esempio per sollecitare le norme antisismiche.
«Quei condomini non dovevano stare lì» racconta Schiratti ammettendo che prima del 1976 l’attenzione verso la geologia era davvero scarsa. «Erano stati edificati nella zona più disgraziata di Majano, su una punta di roccia che affiorava». Una sorta di strage annunciata dettata dal fatto che «da 500 anni non si registravano terremoti di tale intensità».
Dal punto di vista scientifico il terremoto rappresentò davvero lo spartiacque tra il prima e il dopo 1976. Forte di questa convinzione Schiratti si diresse verso la piazza, dove la gente iniziava a farsi largo. «Si sentiva parlare, tutti invocavano attrezzi per tagliare i tondini dei blocchi di cemento per creare una forra, mi chiesero la fiamma ossidrica».
Tornò a casa, cercò la chiave del capannone, non la trovò e si fece largo con una spranga. Quando aprì la porta del capannone vide quello che da fuori neppure immaginava. «Un pezzo di tetto era crollato e aveva fracassato i manometri delle bombole, la fiamma ossidrica era inutilizzabile.
A quel punto distribuì spranghe e seghetti». Non fu facile recuperare le vittime e i sopravvissuti perché i condomini erano stati costruiti con elementi prefabbricati, voluminosi e difficili da spostare.
L’arcivescovo Battisti. Verso mezzanotte, dopo aver percorso più volte quel tratto di strada, Schiratti si trovò nuovamente davanti al condominio crollato e vide «una persona vestita di nero, era l’arcivescovo Battisti. “Eccellenza - dissi - è già qui?”. Era già stato a Gemona e a Buja.
A Majano era bloccato perché le rovine della chiesa ostruivano entrambe le strade, a nord e a sud. Con le mani giunte guardò il cielo». Lì Schiratti vide la prima vittima, «era la moglie del dottor Martina, l’avevano adagiata sul marciapiede».
Lì il comandante della compagnia dei carabinieri di Udine riconobbe che «l’aiuto fornitoci dalla popolazione è stato determinante. In particolare dai Cb». Gli appassionati dei ricestrasmettitori guidavano nella notte le forze dell’ordine nei luoghi del disastro.
La palestra obitorio. Dopo aver agito in varie zone, Schiratti si rese conto che la dimensione della tragedia era immensa. Pensò al suo ruolo pubblico e si diresse in municipio. Doveva stare al fianco della gente.
«Sulle scale incontrai il segretario, il quale mi invitò ad andare in palestra dove la responsabile dell’ufficio anagrafe, in qualità di ufficiale di stato civile, Luciana Monazzi Mora, stava identificando i morti. Sul pavimento c’erano sette salme e cinque o sei bare. C’erano il parroco, il cappellano e Guido il responsabile delle pompe funebri».
Immagini terribili, impossibili da dimenticare anche perché mentre le ore passavano il numero dei morti aumentava. «Li portavano in palestra, la signora aveva un notes e scriveva i nomi. “Deve andare a San Daniele” - mi disse - ci sono sei vittime di Majano da identificare. Il cappellano venne con me e quando stavamo per partire la signora mi gridò: “veda di procure bare, forse l’ospedale ne ha ancora alcune”».
Arrivarono all’ospedale di San Daniele, ma il nosocomio non era più agibile. Lo stavano sgomberando. «Il pretore ci aspettava in reparto dove erano stati ricoverati i feriti poi deceduti arrivati da Majano. Chiesi le bare, ma anche qui erano esaurite. Le ordinarono a Padova. Mi chiesero “quante?” mi venne un nodo alla gola, azzardai un numero: 40 dissi ignaro che sarebbero servite molte di più, almeno 130».
Tanti i nomi elencati nella targa dedicata ai morti del terremoto, tra questi c’è anche un ignoto. Nessuno ha mai saputo chi era. «L’avevano trovato nel condominio di via Roma forse era andato a trovare qualcuno, ma nessuno lo reclamò né nell’immediatezza del terremoto né negli anni a seguire».
Le fabbriche distrutte. Il terremoto distrusse anche le fabbriche compresa la Snaidero che perse sette operai. Morirono sotto le macerie. Rino Snaidero il 6 maggio era in Canada e quando atterrò a Malpensa, incontrò alcuni suoi collaboratori che a bordo di un eleicottero lo riportarono a Majano.
«Ho guardato il paese distrutto - ebbe modo di dichiarare in quei giorni a Hiorgio Mistretto, il giornalista di “Oggi” -, lo stabilimento con il capannone della nuova mensa crollato come un castello di carta e mi sono messo a piangere».
L’80 per cento degli 850 operai della Snaidero aveva perso la casa, sette erano morti, tanti feriti. Ma nonostante i drammi familiari, il lunedì successivo, 120 operai si presentarono davanti ai cancelli della fabbrica. A giugno molti erano già tornati a lavorare.
La Snaidero stimò in 5 miliardi di vecchie lire i danni. L’azienda riprese la produzione dislocando i dipendenti nelle altre fabbriche di Portogruaro e Ampezzo.
La ricostruzione. Nel 1977 l’assessore Schiratti subentrò al sindaco Girolamo Bandera, finito nei guai giudiziari. Approvò otto piani particolareggiati che prevedevano la ridistribuzione della proprietà. «La gente piangeva. Ogni giorno, nella pausa pranzo, ricevevo una quarantina di persone. Completammo l’operazione ricostruzione senza effettuare un esproprio.
Nelle otto zone ognuno dovette accettare il pezzo di terreno messo a norma, ma non era più nel suo orto. Soffrirono molto» ammette l’ex sindaco soffermandosi sulla schiera di case costruite dal Comune, le uniche appaltate con bando pubblico, per andare incontro alle famiglie meno abbienti.
«Erano otto appartamenti». Fondamentale risultò il ruolo svolto dagli Stati Uniti. «Avevano la necessità di trovare un terreno per costruire le scuole medie, elementari, l’auditorium, la palestra e il centro anziani». Majano mise a disposizione il terreno su cui giaceva una vecchia azienda agricola distrutta, a Colle del fun, e gli alpini realizzarono le opere.
«L’ultimo mio atto – ricorda Schiratti - fu l’inaugurazione del complesso alla presenza dell’allora ambasciatore Usa, lui firmò l’atto di donazione e io di accettazione. Quell’intervento era la conseguenza della visita di Rockefeller in Friuli».
«Quando mai riusciremo a dire grazie a tutta quella gente, a quanti hanno trepidato e sofferto con noi» aggiunge Schiratti citando le diverse donazioni ricevute in quei giorni: dal vestiario, ai generi alimentari, alle case. «Gli industriali milanesi fornirono 150 roulotte e quando una ragazza disabile, in una lettera di ringraziamento, scrisse che i terremotati del Friuli erano preoccupati perché nelle roulotte non potevano accendere le stufe a legna, il Comune di Traversetolo ci fece avere anche le stufette elettriche.
E per incoraggiare gli agricoltori a riprendere le loro attività, la Parmalat mandò a Majano 20 maialini». Mentre i volontari facevano la loro parte, gli amministratori, assime ai tecnici, effettuavano i sopralluoghi nelle case da ricostruire, compreso il castello di Susans che assieme ad altre decine di manieri aveva subito danni.
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