A San Daniele l’ospedale inagibile, ma i chirurghi iniziarono a operare
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I feriti continuavano ad arrivare, ma l’ospedale di San Daniele era inutilizzabile. Gli edifici molto vecchi non avevano retto alla forza distruttrice del terremoto. E questo fu il primo segno tangibile della distruzione che il sisma aveva procurato.
Ma nonostante ciò, nel caos più assoluto, i medici e il personale sanitario si organizzarono rapidamente e affrontarono un carico di lavoro che andò oltre le più pessime previsioni.
Qualche ora dopo la scossa che distrusse il Friuli, il vertice dell’ospedale continuava a diramare gli appelli per far rientrare tutto il personale disponibile: i reparti andavano sgomberati. Le lesioni subite dallo stabile erano troppo pericolose e i letti non potevano più rimanere in quelle stanze.
I malati, come si legge nei “Ricordi del periodo dell’emergenza e considerazioni sulla ricostruzione a San Daniele” pubblicato dal Comune nel 1986, furono spostati nei giardini e nei cortili o, nei casi più gravi, nel reparto di lungodegenza che era rimasto intatto. Era uno dei pochissimi reparti inaugurati tre anni prima.
L’ospedale di San Daniele era l’unico organizzato nell’intera zona terremotata da dove arrivavano le ambulanze, i mezzi di fortuna, carichi di feriti e moribondi appena estratti dalle macerie. Nel padiglione dei lungodegenti venne allestito un Pronto soccorso che si affiancava a quello esistente.
Nonostante i problemi statici il vecchio Pronto soccorso continuava a operare. Nel cuore della notte atterrò un elicottero decollato pochi minuti prima dal nosocomio di Padova. Scese un’équipe di chirurghi, iniziò a operare in condizioni davvero precarie. A quel punto molti pazienti furono trasferiti negli ospedali di Udine e di Palmanova.
Tutti gli ospedali erano in difficoltà quella notte. A Gemona, Iolanda Mondini (è lei stessa a rendere questa testimonianza) si apprestava a dare il cambio-turno alla collega puericultrice della nursery dell’ospedale. «La prima scossa mi sorprese mentre mi accingevo a preparare il latte per i neonati.
All’improvviso un tintinnio insolito dei biberon di vetro. E poi spavento, terrore, panico, persone che urlavano e che cercavano di correre, ma, era completamente buio. Uscimmo e ci trovammo sul piazzale dell’ospedale. Qui ci rendemmo conto che diversi neonati erano rimasti dentro.
Incoraggiata dalla decisione del professore Tagliani rientrai assieme a lui nell’edificio per raccogliere e portare in salvo i neonati. I muri e il pavimento ancora ondeggiavano e la nostra paura era quella di trovarci di fronte a una situazione drammatica, ma fortunatamente le culle seppur tutte ammassate in un angolo della nursery, non si erano rovesciate e i piccoli, stranamente, non piangevano.
Il pericolo dei crollo era incombente a ogni nostro passo. Con l’adrenalina addosso portammo i neonati sul piazzale e li riconsegnammo alle rispettive mamme. Alcuni bambini piangevano dalla fame. Erano angosciati, la polvere seccava la gola».
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