A settembre cadde il campanile e Venzone perse l’ultimo baluardo

L’ex sindaco Sacchetto ricorda la disperazione del vescovo e della gente davanti al nulla

VENZONE. La terra continuava a tremare la mattina del 15 settembre 1976. Il sindaco di Venzone, Antonio Sacchetto, arrivò, alle 8, davanti a porta Gemona e vide seduta sul muretto una persona con le mani in testa.

Il racconto del primo volontario: "Mi feci strada tra i massi e salvai la Madonna"

Si avvicinò, era l’arcivescovo Alfredo Battisti che gli disse: «Abbiamo perso l’ultimo baluardo». Il sindaco alzò lo sguardo e non vide più il campanile del duomo. La scossa delle 5.15 l’aveva ridotto a un cumulo di pietre.

L’immagine delle facciate del duomo ridotte a due monconi fecero il giro del mondo. Quarant’anni dopo, Sacchetto ricorda e si commuove.

Nel 1976 aveva 36 anni. Il suo obiettivo era ricostruire la cittadella medievale. Non esitò quando il ministro dei Beni culturali, Egidio Ariosto, gli fece notare che per rifare Venzone dov’era e com’era, la proprietà del centro storico doveva passare al Comune. «Se la sente - chiese al sindaco - di espropriare?». «Sì» fu la risposta. Oggi con altrettanta determinazione l’ex sindaco dice «lo rifarei».

Sacchetto, come molti altri sindaci del terremoto, nel 1976 era un giovane amministratore. A capo di una giunta che univa socialisti, comunisti e socialdemocratici, governava la cittadella medievale da circa un anno.

Novemila pietre numerate, così il duomo è risorto

La sera del 6 maggio, la scossa di terremoto che distrusse mezzo Friuli lo sorprese a casa, fuori le mura: «Stavo montando una libreria, ero steso sul pavimento e mio figlio che all’epoca aveva 10 anni, mi passava le viti. Uscimmo tutti (gli altri due figli avevano 7 e 4 anni ndr) e ci trovammo di fronte al Monte Plauris segnato dalle frane. C’era un gran polverone e l’aria era irrespirabile». Lasciati al sicuro moglie e figli, il sindaco si diresse verso il centro e qui trovò la disperazione.

La notte del 6 maggio Lungo la strada piena di macerie capì che la situazione era drammatica. In piazza vide la «gente radunata al centro, aveva paura delle scosse perché la terra continuava a tremare». Tutto intorno solo macerie. Il suo primo pensiero fu per gli anziani della casa di riposo. «Andai al Pio istituto elemosiniere, vicino alla chiesa di San Giovanni. Era tutto crollato e gli anziani, non so come, erano seduti sui sassi o appoggiati alla parete appena fuori le mura. Erano tutti salvi».

Si stupì. Solo poi scoprì che se, nel caos, gli anziani avessero perso un solo minuto l’epilogo sarebbe stato sicuramente più tremendo. «Non erano neanche usciti dal cortile - aggiunge - qundo si voltarono e videro la scala crollare». A quel punto il sindaco tornò in centro e iniziò a contare i feriti. «Passavamo sopra i morti come fossero manichini. In quel momento non c’era tempo di pensare a loro, li avremmo recuperato poi. Dovevamo salvare chi era rimasto dentro le case, intrappolato, ma vivo. Alcuni non ce l’hanno fatta».

La tutela del centro storico Il sindaco non trova le parole per esprimere quello che sente dentro quando pensa a quella notte e alla dolorosa conta delle vittime. Superata la fase dell’emergenza, l’obiettivo di ricostruire Venzone dov’era e com’era appariva charissimo ai suoi occhi.

Non si poteva cancellare per sempre la storia della cittadella già monumento nazionale, senza contare che neppure i vincoli dettati dalla geografia del territorio caratterizzata dalla presenza del fiume Tagliamento, della ferrovia e dalla strada Pontebbana, l’avrebbe consentito.

«Il programma per salvare Venzone lo indicò il ministro per i beni culturali Ariosto con il quale - rivela - mi confrontai a Roma grazie alla mediazione del Fogôlar Furlan. Lo incontrai assieme al professor Romeo Ballardini, docente all’università di Venezia e presidente del Comitato di settore dei Beni culturali, e Ghislana Sirovich, la figlia di un console italiano in Africa che l’onorevole Claudio Martelli mi aveva presentato come la responsabile dei Beni culturali del Psi».

Fu un incontro decisivo: «Possiamo ricostruire Venzone a un’unica condizione, deve diventare un’opera pubblica. Solo in questo modo possiamo utilizzare le leggi 17, 30 e 63. La proprietà deve diventare comunale e lei deve espropriare il centro, “se la sente?” mi chiese e io risposi sì».

Ma il ministro insistette: «È sicuro di quello che dice, sa che bisogna espropriare tutto e che chi era proprietario di un palazzo non lo sarà più perché diventerà proprietario di una quota». Il ministro «era convinto che dicessi no. “È sicuro - ripetè per due volte - ma io non avevo dubbi Venzone andava rifatta».

Non fu facile far capire alla gente riunita in un’assemblea pubblica, che le case private non venivano ricostruite dai privati. «Se due persone erano proprietarie di un palazzo avrebbero avuto il contributo per due non per il palazzo intero. Il malumore c’è stato» ammette Sacchetto invitando a pensare alle centinaia di espropri effettuati dal Comune e agli emigranti che non si trovavano. «In quei casi per rendere esecutiva la delibera di esproprio dovevamo pubblicarla per 60 giorni. Fu - riconosce l’ex sindaco - un’operazione molto difficile. Pensi al friulano che si vede espropriata la casa».

E la gente come la prese? «Male. Dicevano: “Chi non aveva niente ora ha la casa, mentre io che avevo un palazzo ho solo due stanze”». Sacchetto, però, non si lasciò intimorire dalle proteste ed espropriò le case, appaltò la ricostruzione di Venzone come opera pubblica e riassegnò gli alloggi alle famiglie. «La legge - spiega - diceva che tutti avevano diritto di avere una casa. I parametri erano in base al nucleo familiare non alla proprietà. Non fu facile far digerire questo concetto. Riassegnare le case agli aventi diritto fu un’operazione molto lunga, pensi che si è appena conclusa».

Il recupero dei beni culturali Nei giorni immediatamente successivi al 6 maggio a Venzone accorsero volontari da tutto il mondo per recuperare i beni culturali. Venne istituito il Comitato di coordinamento e, mentre la terra tremava ancora, dalle case e dalle chiese pericolanti furono prelevate e portate al sicuro le opere d’arte.

Sacchetto apprezza quello sforzo ma, ci tiene a chiarire un concetto quasi a sgombrare il campo dall’eco dei rimproveri che aleggiava allora: «C’è il volontario che si mette a disposizione e lavora e il volontariato che impone. Il sindaco poteva accettare l’imposizione perché l’obiettivo era ricostruire il centro storico, ma la gente che si ritrovava con un valore della proprietà inferiore a quello che aveva prima del terremoto, non poteva farlo».

E all’inevitabile domanda «si poteva fare diversamente?» Sacchetto risponde: «La legge era fatta così e a me interessava la ricostruzione del centro storico, tutto il resto diventava secondario». Compresa l’opposizione alla giunta regionale Comelli perché «piuttosto di vedere solo macerie - riconosce Sacchetto - decidemmo che se c’era una legge che ci dava una certa garanzia dovevamo accertarla. Abbiamo dovuto farlo perché il tema era o Venzone o niente».

Il 15 settembre e l’esodo «È stata la fine. Il campanile era caduto, come pure quello che restava del duomo. Erano andate giù anche le case riparate. Era come ricominciare da zero» ricorda l’ex sindaco ancora dispiaciuto per le difficoltà che la gente fu costretta ad affrontare anche durante l’esodo. «Ero passato nelle frazioni di Pioverno, Portis e Stazione Carnia, a tutti avevo detto “le corriere arrivano, fatevi trovare sulla strada con i bagagli”.

Ma all’ora stabilita le corriere non passarono né a Venzone né nelle frazioni. «Arrivò un motociclista, un Cb si chiamava così, mandato dal prefetto ad avvertirmi che le corriere erano terminate». Alle famiglie in strada Sacchetto non se la sentì di dire “tornate indietro”.

Andò in caserma e chiese aiuto agli alpini. Sapeva che avevano i mezzi, ma sapeva anche che quegli stessi mezzi erano armati per contrastare i possibili rischi derivanti dalla presenza del confine slavo. A convincere i vertici militari a mettere a disposizione dei terremotati i mezzi fu il capitano Not: «Se questa non è guerra - disse - non so quale sia la guerra».

E così la gente partì per Lignano sui camion militari con le mitragliatrici sopra. Ricorderò sempre le urla quando imboccarono il ponte di legno, sul cassone vibrava tutto».

Arrivarono a destinazione e nelle colonie le camere erano esaurite. Gli appartamenti furono assegnati il giorno dopo.

Il ruolo dei sindaci Vietato pensare di non farcela per i giovani amministratori del terremoto. «Cercavo soluzioni per risolvere i problemi. Era tutto sulle spalle dei sindaci funzionarti delegati» puntualizza Sacchetto ricordando le grane giudiziarie frutto di un clima non certo sereno tra chi riteneva di aver perso due volte la casa: durante il terremoto e quando gli venne espropriata la proprietà.

«Fui condannato due volte. La prima quando autenticai un documento firmato dalla moglie con il nome del marito. Era la domanda di contributo concesso dalla legge per i danni del terremoto. Due persone raccoglievano le domande che alla sera mi portavano a firmare».

La seconda condanna arrivò, invece, quando «nel pacco delle concessioni provvisorie firmai una concessione edilizia per l’installazione di un prefabbricato provvisorio in conformità al piano regolatore dove ero cointeressato. Se l’avesse fatto il vicesindaco non sarebbe successo niente. C’era gente incavolata per gli espropri che ce l’aveva con me, ma con il senno di poi rifarei quello che ho fatto».

Portis «Con il capitano Mc Bride sorvolai il Plauris e vidi le condizioni della montagna. Era aperta come una zucca e la Regione pose il veto su Portis. Il pericolo di caduta sassi era elevato. Il 15 settembre ne venne giù uno grande come una casa che bloccò la strada nazionale.

Ma tanta gente non sentiva ragione e si rifiutava di lasciare quel luogo. “Portis deve rinascere qui” avevano scritto e sul qui cadde il sasso. Solo dopo i cittadini capirono. Ma per fare la nuova Portis abbiamo dovuto espropriare un’area e chi subì l’esproprio non era contento» continua l’ex sindaco che anche in questo contesto si era posto un’unica condizione: ricostruire. Venzone è rinata anche se all’appello mancano le chiese di San Giovanni e di Santa Chiara.

«È diventata di nuovo un monumento nazionale riconosciuto in tutto il mondo e - conclude Sacchetto - se questo è il futuro di Venzone ben venga, bisogna solo non lasciarlo morire».

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