Accusati di maltrattamenti ai disabili che dovevano assistere: tutti assolti dopo un calvario giudiziario durato anni

Formula piena per i tre ex dipendenti della comunità Piergiorgio accusati. La difesa: «Trattavano gli ospiti come figli»

Luana De Francisco
Gli avvocati Remo Anzovino (a sinistra) e Alessandro Da Re
Gli avvocati Remo Anzovino (a sinistra) e Alessandro Da Re

TOLMEZZO. Assolti con formula piena. Tutti e tre, dopo anni di calvario giudiziario.

Marta Francescatto, 78 anni, di Villa Santina, «perché il fatto non costituisce reato».

E cioè, in quanto il modo in cui gestì alcuni degli ospiti del Centro don Onelio, struttura per persone disabili della comunità Piergiorgio, a Caneva di Tolmezzo, non configura il reato dei maltrattamenti, così come ipotizzato dalla Procura di Udine.

Suo figlio Nevio Adami, 44 anni, pure di Villa Santina, e la sua allora compagna Marta Martinis, 58, di Ovaro, «perché il fatto non sussiste».

E cioè, per la semplice ragione che i presunti episodi di maltrattamento di cui erano accusati non sono mai avvenuti.

È una sentenza che fa tabula rasa di ogni genere di contestazione quella pronunciata dal giudice monocratico del tribunale di Udine, Daniele Faleschini Barnaba, all’esito del processo in cui la pubblica accusa - rappresentata in aula, a ogni udienza, da un pm onorario diverso - aveva chiesto la condanna a 2 anni e 6 mesi di reclusione per ciascuno degli imputati e i legali di parte civile, concordi nel parlare di un «clima di sopraffazione e terrore», il risarcimento dei danni per i rispettivi assistiti.

Un lieto fine che i diretti interessati, sempre presenti al dibattimento, hanno appreso in diretta, gioendone insieme ai difensori, gli avvocati Remo Anzovino e Alessandro Da Re.

«L’istruttoria ha dimostrato che non si trattava affatto di “orchi” che picchiavano persone in minorata difesa, ma di situazioni di impossibile gestione di persone con una malattia psichiatrica che portava ad accessi di rabbia incontrollabile e imprevedibile – ha detto l’avvocato Anzovino –. L’unico mezzo per evitare il disastro ed eventuali lesioni ai danni di altri pazienti, in certi momenti, diventava quindi quello della contenzione».

Nel rilevare l’assenza in atti di referti medici, il legale ha inoltre osservato come la Procura «non avesse invece ascoltato gli ospiti che non erano malati di mente e che avrebbero potuto riferire se nella comunità si respirasse davvero un clima di terrore».

Durante il processo, che la difesa ha definito «molto complesso e insidioso per la delicatezza della fattispecie affrontata», riconoscendo al giudice «l’impegno a capire fino in fondo cosa fosse successo», gli imputati avevano deciso di sottoporsi all’esame delle parti.

«Una scelta che li ha esposti al fuoco di fila di domande di cinque colleghi e del pm – ha ricordato l’avvocato Da Re –, ma che ha permesso di far comprendere una volta per tutte la realtà dei fatti». Tanto più, in un contesto, quello della contenzione, «scarsamente affrontato dal legislatore, ma per fortuna di più e meglio dalla giurisprudenza e in tanti codici deontologici».

Lieti di «avere restituito la dignità che meritano a persone che hanno sacrificato la vita per quella comunità, considerandone gli ospiti alla stregua di propri figli», i difensori si sono detti pronti, ora, «ad approfondire il motivo per cui sono finiti a processo». 
 

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