Addio Dolso, il George Best friulano

SAN DANIELE. Dicono che quando si raccontava lo ascoltavi con grande piacere anche perchè era una bella persona e perchè la sua era una storia di un calcio d’altri tempi. Arrigo Dolso, sandanielese purosangue, spentosi ieri mattina dopo una inesorabile malattia nella casa milanese della figlia Talita, era uno di quei personaggi veri e genuini, amante della vita. La sua è durata 68 anni. Non si è fatto mancare niente anche se avrebbe continuato volentieri a fare ancora lo splendido “mestiere” di nonno con quei due nipotini regalatigli dalla figlia, nata dal matrimonio con la signora Marisa, conosciuta sul finire della sua carriera quando era andato a giocare nel Grosseto.
Arrigo Dolso era nato a San Daniele il 12 novembre del 1946. Il pallone è stato il suo primo grande amore. «Lo rincorrevo scalzo nel cortile di casa», ha raccontato nel 2003 in una splendida intervista di Stefano Boldrini sulla Gazzetta dello Sport. Fino a quando non lo chiamò l’Udinese. In bianconero vinse lo scudetto Primavera nella stagione ’63-’64 in una squadra in cui stavano sbocciando talenti come Braida, Mantellato e Bosdaves. Due stagioni in prima squadra e poi a vent’anni via a Roma, sponda Lazio che lo pagò 95 milioni di lire, un cifrone per l’epoca. «Ero innamorato della vita e per me la vita è sempre stata pallone, musica e donne», ha raccontato. La sera nella capitale non stava mai a casa: «Andavo al Piper, sono cresciuto con Patty Pravo e Rocky Roberts. E se non ero al Piper andavo in via Veneto».
Non avrà esagerato come l’irlandese George Best o il granata Gigi Meroni, figure mitiche di un calcio romantico di cui abbiamo tanta nostalgia, ma nel suo piccolo si era creato un’immagine diversa da quella del calciatore classico e non solo perchè giocava con i calzettoni arrotolati alle caviglie come il suo idolo Mariolino Corso. «Sì, era il mio punto di riferimento, ma il calciatore più forte che ho visto è Rivera. Quando andai a giocare nell’Alessandria si parlava quasi solo di lui anche a distanza di anni dalla sua cessione».
Fece il militare con due signori del calibro di Dino Zoff e Gigi Riva («sei un fenomeno ma non mi passi mai la palla e quindi non ti voglio in squadra con me», lo rimproverava la stella del Cagliari), continuò a giocare fino a 34 anni senza avere paura a scendere di categoria. Dal ’79 all’83 indossò la maglia del Grosseto (C2) e per una stagione il suo allenatore fu Giovanni Galeone che ieri si è quasi commosso nel ricordarlo. «Tecnicamente Arrigo era un vero fenomeno – le sue parole –. Aveva una testa un po’ così e per quei tempi se non ti comportavi in un certo modo finivi ai margini. Oggi, con il talento che si ritrovava, avrebbe giocato dieci anni di fila in serie A».
Il “Gale” lo definisce una «mezzala completa che ti metteva il pallone sul piede anche a distanza di quaranta metri» e comunque un ragazzo per bene, molto professionale». Che a Grosseto conobbe la donna della sua vita, quella signora Marisa con la quale a fine carriera, cioè dal 1984, decise di andare a vivere all’Isola d’Elba. «Avevo bisogno di un’isola, di un rifugio, il mare c’entra poco, a malapena sto a galla», spiegò alla Gazzetta.
A Porto Ferraio la signora Marisa aveva una tabaccheria, Arrigo si divideva tra l’attività commerciale della moglie e il mestiere di allenatore. Si è seduto sulla panchina della prima squadra dell’Audace, ma quando c’è stato bisogno si è messo a insegnare calcio anche a livello di settore giovanile. Chissà se ai suoi ragazzi avrà mai raccontato di quella volta in cui in una gara tra Grosseto e Napoli fece un tunnel al difensore olandese Ruud Krol. «Lui era il re del tunnel – dice ancora Galeone –. La sua non era mai una giocata per irridere l’avversario o fine a se stessa, ma utile allo sviluppo dell’azione».
I funerali di Dorso si terranno oggi a Milano. La salma sarà poi cremata e trasportata a Porto Ferraio dove sabato ci sarà l’ultimo saluto in duomo.
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