Agrusti l’immortale: «Ecco il mio segreto»

PORDENONE. Arriva in redazione con l’immancabile toscano fra le labbra. «Non si fuma». «Non è acceso». Ma lì c’è, da decenni, e lì resta.
Prima tessera di partito, Democrazia cristiana, anno 1974, si vota per l’abrogazione del divorzio, presidente del consiglio Mariano Rumor. Ultima carica conosciuta presidente di Unindustria Pordenone, anno 2015, dibattiti sulle nozze gay, premier Matteo Renzi.
Michelangelo Agrusti. Carta d’identità politica: immortale.
Ma come? Un altro mandato alla guida di Unindustria? Non sono bastati quattro anni, un’avventura imprenditoriale conclusa male e un processo in corso? Come matura l’idea di ricandidarsi?
«Perchè me l’hanno chiesto, come la prima volta, nel 2011. Scontavo, già allora, una diffidenza per il fatto che fino a 40 anni avevo esercitato un ruolo politico. Senza ricordare che quando ero parlamentare io e presidente degli industriali Luigi Cimolai avviammo una grande riforma generazionale. Un momento magico, in cui una generazione di trentenni occupava posizioni di rilievo fondamentale».
Oggi, invece, arriva la proroga a lei, 61 primavere, e nessun giovane alza la mano.
«Mancano i luoghi, i gruppi coesi, a partire da quelli studenteschi. La conquista della leadership non è mai regalata. La pretesa che l’avvicendamento generazionale possa avvenire per cooptazione o per lascito è sbagliata. Certo è auspicabile che le nuove generazioni, penso a Renzi, nel momento in cui sono in grado di sbaragliare il campo e apprestarsi alla guida del potere, variamente inteso, lo facciano. Altro è immaginare che questo processo possa essere sostituito da un’eredità. Il giovanilismo non è un valore assoluto».
Nemmeno guidare un’associazione di industriali senza un’impresa lo è.
«Quanto diventai presidente, nel 2011, la mia azienda, la Onda communication, era una delle più innovatrici d’Italia. Non facevamo lattine di birra, avevamo accettato una sfida straordinaria e ritenuta allora quasi impossibile: recitare un ruolo nel mercato delle telecomunicazioni. Allora Telecom era il secondo player mondiale nel settore, aveva l’egemonia del mercato in Italia, in gran parte del Sudamerica e compartecipazioni in Spagna, Turchia, Austria, Repubblica Ceca e Francia. Individuammo un mercato di nicchia, la trasmissione dei dati wireless, e col supporto Mauro Sentinelli, guru della telefonia mobile italiana, ci indirizzammo su schede per la trasmissione dati, accessori per i computer».
Un guru, Sentinelli, che venne a lavorare per lei a 100 mila euro l’anno, con Tronchetti Provera nella compagine sociale. Non male, per un’azienda appena nata, diventare il primo fornitore di Telecom.
«Lo meritavamo. Fummo i primi a brevettare a livello mondiale la chiavetta di interconnessione a internet mobile. I primi a realizzare un tablet touch, “Alfred”, due anni prima che Steve Jobs promuovesse quello della Apple. Ma eravamo una piccola società nel Nordest, pochi credevano che una simile tecnologia potesse partire da qui. E dire che Jobs cominciò da una cantina...».
Perchè, poi, le cose smisero di funzionare?
«Vi furono lotte di potere all’interno di Telecom ed entrarono Generali, come socio di riferimento nel gruppo. Lì iniziarono i nostri problemi, anzichè le nostre fortune. La lotta tra soci di Telecom, e segnatamente tra parte del management e Generali, finirono per scaricarsi su Onda, che fu vista assurdamente come parte del sistema Generali solo perchè mio fratello era direttore generale del Leone. Un concordato avrebbe potuto salvare l’azienda, con l’ingresso di potenti soci Usa e della più grande società di software italiana, la Engineering. Ma le cose andarono diversamente».
E lei, da allora, non è più imprenditore.
«Sbagliato. Ho continuato a svolgere la mia attività con tre società internazionali di telecomunicazioni e software, che oggi rappresento in Confindustria a Pordenone e mi danno titolo per votare ed essere votato».
Quali?
«I nomi non sono importanti. Lo è di più ricordare che il fallimento di una società non è il fallimento di una persona, bisognerebbe impararlo dagli Stati Uniti. E credo che presto avrò di nuovo una mia impresa».
Nel frattempo ha avuto la proroga alla presidenza di Unindustria. Perchè affrettarsi a votarla a giugno, sei mesi prima della scadenza del mandato?
«Perchè altrimenti avremmo dovuto iniziare le procedure per arrivare alla nuova designazione: nomina dei saggi, due mesi di tempo per sentire gli imprenditori, rosa di candidature, proposta dei nomi possibili, votazione della giunta, votazione dell’assemblea».
A lasciare le cose come stanno, invece, si fa prima.
«La proroga di due anni è prevista dallo statuto».
A Pordenone è la prima volta.
«Lo statuto è cambiato durante il mio primo mandato. E’ stato adeguato a quello di quasi tutte le altre città, dove questo istituto è previsto e normale».
Ed ecco il mandato bis, a scrutinio segreto. Quello che di solito si usa per impallinare il leader scomodo. Lei, invece, ne esce rafforzato.
«Certo. Ci fosse stato il voto palese, la percentuale sarebbe stata maggiore. Ricordo che l’incarico è privo di emolumenti, che ho creato il polo tecnologico, dove centinaia di imprese lanciano le loro start up, e l’ho difeso quando la giunta Tondo, col consenso di tutti i gruppi consiliari, voleva liquidarlo. Una crisi così feroce richiede un leader con tempo, dedizione, un po’ d’intelligenza e fatica».
Lei a Unindustria, Marchiori all’Ascom, Pavan alla Camera di commercio, Pascolo all’Unione artigiani, Vagaggini all’Atap, Furlan alla Gsm... A Pordenone sempre le stesse facce. Forse è fortuna, abbiamo trovato tutti i migliori al primo colpo e ce li godiamo per tutta la vita.
«Beh, io ci sono solo da quattro anni... La giunta mi ha proposto all’unanimità e l’assemblea, senza alcun intervento contrario, ha approvato col 75%. Quanto agli altri, quanti sono, oggi, i giovani artigiani e commercianti? Ci sono più figli di imprenditori che giovani imprenditori. La crisi della rappresentanza riguarda tutti».
Ma cosa direbbe oggi all’Agrusti trentenne che bussa, con la sua grinta di allora, alla porta della stanza dei bottoni?
«Lo farei entrare. La società di oggi ha bisogno di entrambi gli Agrusti. Devono imparare a convivere perchè questo è il mix virtuoso che può consentirci di superare momenti così drammatici».
Ci sono leader giovani, oggi, a Pordenone?
«Sì, vedo Bolzonello, vedo Alessandro Ciriani... Con Pedrotti sarebbe una bella sfida».
E in regione?
«La Serracchiani ha salde, in pugno, le redini ma deve stare attenta all’ascesa di Fedriga e alle dinamiche innescatesi in Veneto prima, con le regionali, e poi a Venezia».
Potrebbe sempre regalarle il suo segreto di lunga durata...
«Nessun segreto. Ho finito di fare il parlamentare a soli 40 anni per infarto della Repubblica, ho affrontato con coraggio le vicende giudiziarie e ne sono uscito pulito, senza aver mai patteggiato nulla. Ci sono stati momenti in cui mi è sembrato che le vicende personali fossero così pesanti da non riuscire a sopportarne il peso, ma ho trovato sempre dentro di me le risorse per affrontarle a muso duro».
Ora da affrontare a muso duro ci sono le crisi industriali, da Ideal Standard a Lavorazioni Inox.
«Per Ideal Standard il piano industriale Sofip dice che può rinascere un’azienda in grado fra tre anni di assorbire 305 lavoratori. Per Lavorazioni Inox si è trovata una soluzione, spero che sia durevole, martedì vedremo. I fondamentali di quell’azienda ci sono».
A dicembre 2017 scadrà il suo ennesimo mandato. Che Electrolux immagina per quella volta? Perchè ne immagina, una, vero?
«Rimarrà in Italia e in Friuli se, una volta esauriti gli ammortizzatori sociali, si creeranno le condizioni affinchè Pordenone possa garantirle la competitività indispensabile per reggere la sfida sui mercati internazionali».
Ritiene possibile, oggi, ripartire dal manifatturiero?
«Stiamo lavorando per una new manifacturing zone che diventi un modello nazionale di relazioni industriali e contratti. Nello stesso tempo stiamo sviluppando un piano per far diventare il nostro manifatturiero, anche attraverso la nascita di nuove imprese, un fornitore strategico di Fincantieri».
Ma arriveremo, un giorno, a vedere Agrusti in pensione?
«Mai. Per me la parola pensione non esiste. Potrei, al limite, trovare più tempo per girare in moto».
Esce, riaccende il toscano. Uno sbuffo e il saluto: «Vede, l’età può anche avanzare, ma non sarò mai vecchio».
Il segreto dell’immortale.
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