Alla trattoria “Da Gardo” di Majano la festa finì in tragedia in 16 morirono sotto le macerie

Lorenzo Natolini, l'attuale gestore, racconta come il terremoto sterminò la famiglia Barachino. «Fu un’ecatombe. Mio nonno si salvò solo perché lo protesse l’armadio»

MAJANO. Il terremoto trasformò in tragedia anche la festa familiare, una rimpatriata organizzata alla trattoria “Da Gardo” dalla titolare, Isolina Barachino, con alcuni amici emigranti. Tra le macerie del locale crollato sotto il peso della palazzina dove abitavano Gardo, la moglie e i figli Luigi e Alfredo, morirono 16 persone.

E chi riuscì a salvarsi ricorda tutto di quella sera: il telefono che squillava a vuoto, la corsa verso Majano facendo lo slalom tra le macerie, l’arrivo e la palazzina accartocciata dalla quale uscivano le urla dei sopravvissuti.

«Il telefono suonava a vuoto. “Riprova”, dissi a mia madre. Niente, in trattoria da nonno Gardo non rispondeva nessuno. Era molto strano che, dopo quella forte scossa, i miei zii non si fossero accertati che i parenti di San Tommaso stessero bene».

A Majano tra le macerie dei condomini dopo le urla calò il silenzio

Lorenzo Natolini che, oggi, con la madre Irene Barachino, gestisce la storica trattoria “Da Gardo” a Tiveriacco di Majano, non può dimenticare quelle 16 vite spezzate. Non riesce a cancellare dalla memoria quel brutto presentimento che qualche ora dopo si confermò in tutta la sua drammaticità.

Il 6 maggio Irene e i figli Lorenzo, Bruno e Sandro non erano nel locale, fu questa la loro inconsapevole fortuna, soprattutto per Sandro, che ogni sera si fermava ad aiutare il nonno nel bar. La loro casa aveva retto al sisma, pur se pericolante. Ci misero un po’ prima di riuscire a salire in macchina per dirigersi verso il locale. Lungo la strada, percorribile a fatica, i fotogrammi di una tragedia: la furia dell’Orcolat aveva distrutto tutto.

Arrivati di fronte alla trattoria, ebbero la conferma del dramma: il tetto del locale, appena rifatto in cemento armato e troppo pesante per quella struttura, era collassato, riducendo l’intera palazzina a un cumulo di macerie.

«Sentivamo le urla di coloro che erano rimasti intrappolati nel crollo - racconta Irene - e vedevamo gente che scavava a mani nude, militari che aiutavano senza sosta. Nella notte arrivarono i primi soccorritori dall’Austria. Il parroco, preoccupato che mettessi in pericolo la mia vita, mi rammentò che avevo tre figli a cui pensare e mi allontanò».

Quelle pietre erano ciò che restava degli appartamenti dove vivevano Gardo e i suoi figli. Al piano terra c’era la trattoria, dove assieme ai suoceri lavoravano anche Nina e Amelia, mogli rispettivamente di Luigi, meccanico, e Alfredo, capo alla Snaidero.

Quella sera la famiglia Barachino festeggiava il ritorno dall’Argentina di alcuni amici di Feletto, la famiglia Di Bez molto legata al fratello di Isolina, anch’egli emigrante. «C’era stato appena il tempo di farli sedere a tavola e di indirizzare altrove un’altra comitiva per mancanza di posti - rivela Lorenzo - il nonno era salito nel suo appartamento a prendere i sigari da offrire quando fu sorpreso da quella lunga e paralizzante scossa».

Per Gardo Barachino, classe 1891, quel gesto fece la differenza, si salvò perché il grande armadio della camera, dove teneva la scatola dei sigari, lo protesse dalle macerie. Fu estratto dopo più di 8 ore e trasportato all’ospedale di Pordenone.

Il resto della famiglia Barachino fu sterminato: morirono Isolina, moglie di Gardo, suo fratello Luigi con il figlio Fabio, sei anni, seduto sulle sue ginocchia mentre aspettava la cena. Morì Alfredo, assieme alla moglie Amelia Celotti, che era di servizio come cameriera.

Anche la piccola Nadia, nipotina di Amelia e Alfredo, volò in cielo. Era in braccio alla sua mamma, Franca, uscita dal bar assieme al marito Silvio Taboga dopo la prima scossa. Franca e Silvio si salvarono ma un tragico destino strappò loro la figlioletta, colpita da un masso durante il crollo.

Nel locale persero la vita pure Gabriella Pontelli, la cugina di Irene, che faceva la cameriera e altri avventori. «Fu un’ecatombe perché il locale era pieno - aggiunge Lorenzo - c’era anche una dimostrazione di pentole. Il rappresentante riuscì miracolosamente a salvarsi uscendo da un’apertura nel muro assieme a mio cugino Marco, che è uno dei pochi superstiti della famiglia Barachino come suo fratello Roberto e la zia Nina».

Non fu facile sopravvivere a quel dolore. Le lacrime sgorgano ancora dagli occhi di Irene, insignita del titolo di Cavaliere del lavoro, alla quale va il merito di essersi rimboccata le maniche e di aver preso in mano, tra mille difficoltà, le redini dell’azienda.

«A farci andare avanti - concludono Irene e Lorenzo - anche dopo che la baracca che avevamo attrezzato a bar fu spazzata via da un camion uscito di strada, furono la vicinanza della gente e la consapevolezza che solo vedere risorgere il nostro locale avrebbe dato uno scopo alle nostre vite e reso onore alla memoria dei nostri cari».

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