Andrea, l’ultimo fabbro che realizza pezzi unici

La famiglia Ventoruzzo a Cordovado gestice la “bottega” da nove generazioni. «Mio padre mi mise a lavorare a 8-9 anni: primo “incarico” spaccare il carbone»

CORDOVADO. È l’ultimo fabbro artigianale della regione. In un periodo in cui rapidità e tecnologia digitale acquistano aspetti determinanti per il futuro delle aziende, entrare nell’officina fabbrile di Andrea Ventoruzzo sconvolge ogni parametro.

All’ingresso del laboratorio una targa presenta l’attività come “Antica bottega fabbrile Ventoruzzo (secolo XVIII) e inserita negli itinerari “Architettura e borghi rurali” dei Borghi più belli d’Italia.

Andrea Ventoruzzo l’attuale titolare, sta realizzando un grande cancello in ferro con fiamma ossidrica e martello in un ambiente pieno di attrezzi antichi, fucine, cappe, mantici, focolari ceppi, incudini, mazze, lime, martelli, pezzi rari; utensili di un lavoro artigianale che sta scomparendo, ma proprio per la sua unicità sta conoscendo una felice fase di stabilità e di crescita.

La conferma viene dal proprietario che gestisce un’impresa antica di almeno nove generazioni, che inizia a Tolmezzo nei primi anni del 1700 con la tessitura della tela, poi trasformata nella costruzione di carri e attrezzature agricole, quindi arrivata a Cordovado nella prima metà del XVIII secolo.

«L’azienda si è sempre tramandata a livello familiare – racconta Andrea Ventoruzzo –, lavorando ferro e legno fino alla fine del 1800, poi, per scelta di mio nonno “mastro” Pietro, è stata privilegiata la lavorazione del ferro sia per usi agricoli che verso committenze private.

Negli anni ’60 l’azienda è stata ristrutturata conservando però l’impronta artigiana a conduzione familiare e nel 1970 l’unione artigiani del Fvg la premiava come “Antica bottega artigianale friulana dal 1700” con l’importante esempio di questo dell’elegante cancello di palazzo Marzin-Mainardi (1719)».

«Per tanti giovani fino agli anni ’70 la “bottega” è stata valida scuola di apprendistato con la gestione del padre Celso e il mio praticantato – ricorda Andrea – iniziò a 8-9 anni, quando mi occupò a spezzare con un martelletto il carbone per la forgia del metallo e tenere ben fermi sull’incudine i pezzi degli attrezzi.

In quegli anni l’officina era diventata la mia sala giochi quotidiana con gli anziani di borgo Villa che venivano nell’officina per fare due chiacchiere tra i macchinari e dove ognuno aveva il proprio posto assegnato.

Un aspetto che ricordo molto bene con la parte formativa è stata la responsabilità e l’autonomia nel lavoro che mio padre mi trasmise fin dall’inizio con consigli quali l’osservazione, precisione e creatività, tutto questo mi ha fatto maturare in fretta e crescere professionalmente».

In questo ambiente maturò la sua passione, che diventerà poi mestiere nonché desiderio di proseguire l’attività paterna. Ma il mercato ora si sta evolvendo.

Sono frequenti i contatti con studi di progettazione, designer e architetti, la clientela si è fatta più attenta e selezionata, la qualità dell’opera diventa determinante, soprattutto nel mio caso di attività di piccole dimensioni.

«Quello che realizzo – ancora Vettoruzzo – sono pezzi unici, irriproducibili dove il disegno preparatorio, lo stampo e la realizzazione finale è garantita dalla manualità del prodotto, una “creatura” alla quale molte volte ci si affeziona e sono il primo a non consegnare un lavoro che non mi soddisfa.

La tecnologia è un supporto senz’altro utile, ma non può certamente sostituire lo stile e il pregio dei lavori eseguiti dove il detto: “se é ferro tutto si può fare” assume un significato ben preciso».

«Questo è un lavoro faticoso “ci si deve sporcare le mani” diceva Paolo De Rocco. Ed è per questo che è poco ambito dai giovani, ma a loro va trasmesso il valore professionale, ma soprattutto la pratica. Spero che mio figlio Denis possa dare continuità all’azienda per un’altra generazione fabbrile dei Ventoruzzo».

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Riproduzione riservata © Messaggero Veneto