Arriva Silvio Orlando: «Dove c’è il potere esiste il servo sciocco»

UDINE. Non è teatro puro. Trattando la vita, lo diventa. La più subdola esistenza dei malvagi, degli adulatori di professione, dei miserabili di talento.
Oggi i satiri se la ridono, attacchi blandi al potere dietro una battuta. Nel secolo dei Lumi etica ed estetica erano discusse con la profondità di penne coraggiose, fortuna nostra ancora fresche testimonianze di un’involuzione umana, se analizzata nell’intimo.
E da Diderot alla Seconda Repubblica non è mutato un granché, ahinoi tapini. Sempre a combattere sui principi mancanti.
Basta scavare e ci si accorge che la prosa non è soltanto Shakespeare o Goldoni, c’è dell’altro, forse nascosto dall’aspetto prettamente letterario dell’opera. Il nipote di Rameau, a parte una ormai dimenticata versione di Gabriele Lavia, è pane per le nostre coscienze devastate, un aiuto a comprendere quanto l’immoralità resti un nemico da sconfiggere.
Vagava nei ricordi giovanili di Silvio Orlando, Il nipote di Rameau, spettacolo da stasera in tour in Friuli Venezia Giulia. «Diderot è autore fondamentale per la formazione dell’attore – spiega – e un articolo di Eugenio Scalfari su Repubblica mi fece riemergere quel testo con prepotenza a proposito delle contraddizioni della cortigianeria. Ed è un prolificare continuo. Dove c’è potere, esiste il servo sciocco».
La forma è quella del dialogo a due, dove i protagonisti – lui e io –, ovvero Jean-François Rameau e lo stesso Diderot, analizzano le questioni morali. Il nipote è un malfamato che sopravvive intrattenendo le corti della borghesia parigina.
All’apparenza un essere spregevole, dotato di delirio e buon senso, abiezione e onestà. Un esteta privo di moralità. Con almeno l’ardire di confessarlo.
– Orlando, pare davvero non esserci mai mossi dal Settecento. Ci ritroviamo con gli stessi problemi comportamentali, i peggiori...
«L’Italia è un Paese ostico, l’obiettivo non è mai cambiato: scalare la piramide. Il come non è fondamentale, basta arrivare in cima, entrare a fare parte del cerchio magico. E la moralità gioca un ruolo primario. O la non moralità. Comunque si agisce sempre attorno alla questione».
– La virtù porta alla felicità?
«Alla lunga penso di sì. Con le mediazioni del caso. Siamo costretti a farlo. Ognuno nel rispetto dei propri limiti. C’è chi se ne crea di molto ampi e il consentito oltrepassa i confini del buon senso. Bisognerebbe indietreggiare all’adolescente dal quale siamo partiti per individuare le nostre prime aspirazioni, i nostri fallimenti».
– In che misura gli uomini sono liberi?
«La libertà è stabilita ogni giorno. Non ne esiste una in assoluto. Troppi vincoli. Come diceva Gaber, la libertà è partecipazione».
– Lei si sente libero?
«Magari. Dovremmo tutti prendere le distanze dal denaro. Quello ci ha sempre reso schiavi. Il miliardario è meno libero del povero».
– Come cittadino italiano è preoccupato?
Folle chi non lo è. Io lo sono. Pesano i soliti difetti che rendono la società un guazzabuglio: la furbizia imperante, il narcisismo, gli inganni e la distanza ormai abissale fra i cittadini e il potere».
– Ultima scena del Caimano . «Con la mia condanna questa democrazia si è trasformata in un regime», dice davanti al tribunale il presidente del consiglio (Moretti). Un film del 2006, eppure...
«Siamo ancora sulle scale della giustizia e c’è la folla che protesta. Come nella finzione di sette anni fa. Pare che nulla abbia voglia di mutare. E non solo il berlusconismo. Abbiamo paura dei cambiamenti».
– Grillo come lo vede?
«È un comico che agisce d’istinto. E ricerca il gran finale, come tutti gli artisti. L’indimenticabile uscita di scena».
– Sempre fedele alla sinistra, Orlando?
«Al concetto di partito, sì. Un simbolo irremovibile, attorno al quale dobbiamo stringerci per ripartire».
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