Bancarotta, condannata la nipote di Luigi Dall’Agnese

BRUGNERA. Due anni di reclusione (pena sospesa) più il risarcimento dei danni e delle spese processuali e legali. Pena accessoria, l’inabilitazione per dieci anni all’esercizio dell’impresa e l’incapacità, per la stessa durata, a esercitare uffici direttivi presso qualsiasi azienda.
Questa la condanna inflitta dal tribunale di Pordenone in composizione collegiale (presidente Licia Consuelo Marino, a latere Patrizia Botteri e Monica Biasutti) all’imprenditrice Michela Dall’Agnese, 46 anni di Vittorio Veneto, ma residente a Oderzo, per il crac della Darfin srl di Brugnera, immobiliare del gruppo Dall’Agnese, fallita a novembre del 2008.
La donna ha dovuto rispondere di bancarotta fraudolenta (mentre il tribunale aveva decretato il non luogo a procedere sull’accusa di bancarotta documentale) per avere sostanzialmente distratto – con il nonno Luigi Dall’Agnese (patron del gruppo che fa capo al mobilificio brugnerese, deceduto nel 2007 all’età di 84 anni), rimasto presidente del consiglio di amministrazione della Darfin sino al 2004 – fondi dalle casse societarie.
Soldi che l’imputata non aveva intascato, ma che erano stati erogati a titolo di prestito allo stesso socio Luigi Dall’Agnese e alla società Dall’Agnese spa. Si tratta per la precisione di (un milione 136 mila 205 euro nel 2001 e un milione 115 mila euro nel 2002), somme che poi sarebbero state restituite parzialmente (per 454 mila euro) e per la parte rimanente compensate con un finanziamento effettuato sempre da Luigi Dall’Agnese alla Darfin.
La Darfin aveva attinto al credito bancario per reperire i fondi necessari a finanziare la “holding” del gruppo. Gran parte di questi soldi non erano più rientrati nelle casse sociali, in quanto il debito della Dall’Agnese spa era stato compensato con un credito che Luigi Dall’Agnese vantava nei confronti della Darfin per dei versamenti precedentemente effettuati a titolo personale.
Ma, qui starebbe l’irregolarità secondo l’accusa, questi ultimi sarebbero stati conferimenti in conto capitale da parte del “patron”, non a titolo di finanziamento, e quindi non avrebbero avuto diritto alla compensazione da parte della società nei confronti della persona fisica (il socio) che li aveva effettuati.
Questo è quanto hanno sostenuto il pm Maria Grazia Zaina e l’avvocato Valter Santarossa, difensore della curatela fallimentare, mentre Bruno Malattia, difensore di Michela Dall’Agnese, sosteneva che il cavalier Dall’Agnese nel 2003 avesse acquisito il credito finanziando l’immobiliare di famiglia, per poi compensarlo con il debito di analogo importo.
Ieri, dunque, è arrivato il verdetto del tribunale sull’intricata vicenda. E l’avvocato Malattia ha già preannunciato un corposo ricorso in appello.
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