Benedizione delle case? Tradizione dimenticata, ma non a Pozzuolo

I motivi? Il mutare dei tempi e la mancanza di sacerdoti. Monsignor Costantini non si arrende e chiama i diaconi

POZZUOLO. «Pace a questa casa e ai suoi abitanti». Comincia così la preghiera per la benedizione delle famiglie, tradizionale un tempo, ora rara per carenza di preti.

Parole che, chiedendo a Dio «sostienici nella fatica del lavoro quotidiano, concedici pazienza, serenità e salute», evocano scenari di un tempo, quando nei paesi tutti si conoscevano e la vita religiosa scandiva ogni momento della giornata e dell’anno.

Oggi quasi ovunque non si fa, per mancanza di tempo dei parroci, spesso anziani e impegnati allo stremo a garantire almeno le messe. Ma anche per le mutate abitudini, la difficoltà di conciliare gli orari o la rarefatta adesione alle pratiche religiose.

Pozzuolo, con alcune frazioni, fa eccezione: la benedizione c’è ancora. La tenacia del parroco, monsignor Carlo Costantini, nel mantenere l’impegno nonostante l’età non più giovane, ha contagiato i diaconi Ivano Pacco di Sammardenchia e Michele Trungadi del Tempio di Cargnacco.

Preziosa la collaborazione di alcuni paesani, che accompagnano ora l’uno ora l’altro. Una tradizione, questa, che suscita negli anziani accorati amarcord.

«Il periodo - rievoca don Ivano - era dopo l’Epifania: con la stola sopra il cappotto, da cui sporgeva la lunga veste nera, il prete arrivava, accompagnato da un piccolo sèguito di almeno due chierichetti (“zaguts”) e il nonzolo (“muini”) con la croce».

«Uno dei bambini portava il secchiello dell’acqua santa con l’aspersorio. Immancabile il cestino per le offerte delle famiglie. Uova soprattutto. Ma anche prodotti dalla macellazione casalinga del maiale (“robe purcine”), per chi se lo poteva permettere. Le donne per l’occasione avevano pulito casa e cortile, i mobili delle camere venivano passati con petrolio».

Perché si benediceva anche al piano di sopra - spiega ancora il diacono -, dove si esibiva la biancheria ricamata del corredo.

Riceveva l’acqua benedetta naturalmente la stalla, dove era concentrata la forza economica e lavorativa, visto che delle mucche si sfruttava l’energia per la trazione nel lavoro agricolo e si otteneva cibo per il consumo familiare e il piccolo commercio della latteria turnaria.

Il prete e la sua compagnia venivano rifocillati: vista la tradizione del “tajut” e del goccetto di grappa o china, giocoforza le benedizioni non potevano essere tante nella giornata.

«La grande benedizione per propiziare i lavori in campagna - racconta poi Pacco – iniziava dall’Ottava di Pasqua. La campana annunciava l’inizio delle visite, che le donne aspettavano lanciandosi la voce di cortile in cortile».

«Oggi - riferisce don Michele - di solito si va per appuntamento. Spesso per la sera, quando tutta la famiglia è a casa».

Ma a Pozzuolo si suona a ogni campanello. Come la prendono i paesani? «Con favore chi è praticante. Alcuni dicono che non è il momento o non è importante, nessuno è sgarbato».

Conferma che la benedizione casa per casa è «difficile, quasi sparita soprattutto nei grossi centri» don Loris Della Pietra, direttore dell’ufficio liturgico diocesano di Udine: «La rivoluzione, rispetto a un tempo – aggiunge -, è il fatto che non si benedicono i muri, ma le persone. Non quindi un anti-infortunio o anti-furto, bensì l’incontro del pastore con chi vive, soffre e affronta battaglie in quella casa, per conoscere problematiche e gioie e invocare insieme la benedizione di Dio sulla famiglia».

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