Birrathlon, la gara alcolica dei rugbisti che non piace all'Aas5: "Non è responsabile"

Nessun mondo come quello della palla ovale vive di riti e tradizioni e alimenta il senso di appartenenza. Forse perché il rugby è, più degli altri sport, calzante metafora della vita: sul campo hai bisogno degli stessi strumenti. La palla è irregolare, rimbalza dove vuole; puoi provare a prevederne i balzelli ma non c’è certezza che tu possa farlo; quindi, conti sui compagni. Tutti assieme si spinge, si corre, si placca, si porta quella maledetta palla oltre quella maledetta linea di meta.
«Il gruppo è tutto – dice senza retorica Francesco Sordini, trequarti del Pordenone Rugby in campo, organizzatore di Birrathlon fuori –. Questa cosa che facciamo, tutti assieme, è un momento goliardico ma anche un’occasione per rafforzare il legame tra noi. È divenuto un appuntamento fisso da una decina d’anni. A fine campionato, ci ritroviamo, tutti noi della prima squadra, e cominciamo a correre per la città».
Sordini dice bene: Birrathlon – come il nome velatamente suggerisce – è una maratona, un percorso da fare di corsa, che prevede diverse tappe... spumeggianti, rigorosamente alla spina. La prima squadra del Pordenone Rugby, una ventina di energumeni, è partita venerdì sera, alle 19, dal campo di Borgomeduna. Il drappello, in divisa da gioco ma senza i colori della società, di corsa come i bersaglieri, preceduto da alcune “vedette” che di volta in volta aprivano la strada arrivando nei locali e ordinando 20 “bionde” alla spina, ha attraversato tutta Pordenone: da Borgomeduna e dal bar in piazza giù fino al “Prima classe”, poi all’osteria “Colonna”, la pizzeria “Amalfi”, il “BarCollo”, il bar “Bacco”, il “Portorico” in corso Vittorio Emanuele II e il “Caffè Municipio”; infine è tornato a Borgomeduna, al bar “Ai Travi” e infine nuovamente al campo.
Nove tappe, nove birre. E, a ogni tappa, una foto-ricordo col personale dei locali in inusuali pose rugbistiche: così mingherline bariste hanno provato l’ebbrezza della touche conservandone uno scanzonato e divertente ricordo. Nove tappe, nove birre. Ci vuole giusto un fisico da rugbista: «Lo facciamo da anni – scherza Davide Alberti, seconda linea – mai nessun disperso. Semmai, qualche anno, abbiamo dovuto “noleggiare” un carrello della spesa per riportare al campo i più... affaticati. Ma è un rito. Inoltre, è un modo per far sapere alla città che il rugby c’è».
Insomma, tutti d’accordo? Innocente goliardia o il fatto che il percorso sia etilico qualche interrogativo lo pone? «Quando me ne hanno parlato i ragazzi – dice Giovanni Cantiello, tecnico della prima squadra e ds – ho detto loro quel che pensavo: siamo un club con un movimento giovanile invidiato in regione, abbiamo ottime strutture e numerosi tesserati, molti dei quali giovani e giovanissimi. Non mi piace l’idea che i miei giocatori esagerino, anche se per gioco, con la birra: gli atleti di prima squadra non devono dimenticare che dividono il campo con ragazzi e ragazzini, che stravedono per loro. Canti, cori e birra non mi paiono il migliore spot possibile».
A dirimere questa mischia pacifica, Luca “cherno” Favot, allenatore in seconda, unico tecnico non giocatore ammesso al Birrathlon.
MA L'AAS5 NON CI STA: "ATTEGGIAMENTO IRRESPONSABILE"
L’organizzatore difende il Birrathlon, il medico boccia l’iniziativa. Opinioni a confronto sulla maratona alcolica dei rugbisti.
«L’abbiamo fatta – ha detto Francesco Sordini – per ringraziare i bar e i locali che ci hanno ospitati nei terzi tempi, a fine partita, per festeggiare». Secondo Sordini «è stata un’iniziativa che non incentiva assolutamente all’uso di alcol. Noi beviamo birre piccole, da 0.2 millilitri, e correndo abbattiamo il consumo di alcol, lo bruciamo e arriviamo al campo di rugby solamente stanchi». Quanto all’aspetto educativo, «sappiamo che l’abuso di alcol fa male – ha sottolineato Sordini – e lo diciamo ai nostri giocatori, anche ai più piccoli. Spieghiamo che bere troppo fa male, che ci deve essere un limite e che quando lo si raggiunge bisogna fermarsi. “Birrathlon” non ha mai creato problemi, non abbiamo mai lasciato nessuno per strada».
Di parere diverso Paolo Cimarosti, responsabile del servizio di alcologia dell’Aas 5: «E’ una buona iniziativa per incentivare la mortalità alcol correlata in provincia di Pordenone – ha tagliato corto –. I dati ci dicono che in provincia muoiono ogni anno 63 persone per problemi alcol correlati, non solo alcolisti, ma anche coloro che per avere bevuto una volta cadono e si fanno male oppure fanno un incidente mettendo in pericolo se stesso e gli altri. Mi piacerebbe sapere che cosa ne pensa il Coni, che è molto attento a questo aspetto o almeno dovrebbe esserlo, di questa iniziativa. Tra l’altro gli incidenti stradali sono la prima causa di morti tra i nostri giovani».
Cimarosti ha, poi, ricordato che nel caso di presenza di minori vada avvertita l’autorità competente e da medico sportivo proprio nel rugby ha osservato che «sono appassionato di questo sport, ma non è proprio una disciplina in cui si insegna a bere».
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