Branko: «Infiltrato tra i camionisti»

Parla l’attore sloveno protagonista di “TIR”, il docu-film del friulano Alberto Fasulo dal 27 nelle sale. Domani anteprima a Pordenone

Fasulo non usò molti filtri per convincere Branko Završan a fare ciò che lui chiedeva. Inutile perdere tempo, inzuccherare, barare. Dritti come spade.

«Lui, Alberto, cercava un attore - meglio se matto, tipo me - che accettasse di fare il camionista vero per tre mesi. “Vorrei girare un documentario”, mi disse. “Vicino al concetto di film, però. Tanta realtà, recitazione zero”».

La genesi di TIR, già prodotto cult, distribuito dalla friulana Tucker e con addosso il magnifico peso di un Marc’Aurelio d’oro conquistato al Festival di Roma, inizia da una richiesta lanciata senza pensarci su dal regista a un uomo d’arte segnalato dall’amico Andrea Collavino.

A volte le partenze sono davvero curiose.

«Accettai. Ho un carattere duro. Poteva spaventarmi solo l’idea di salire su un camion e vivere in tre metri quadri per così tanto tempo, poteva terrorizzarmi solo il pensiero di non finire la missione, ma nulla di tutto ciò mi passò per il cervello. E presi la patente per guidare quei bestioni».

Una vita da infiltrato.

Condicio sine qua non era far assumere Branko da un’azienda di trasporti. Završan deve sembrare uno vero. «Il direttore sapeva, in realtà. Nessun altro. Tanto meno i colleghi, altrimenti saltava il piano naturalezza».

TIR non è ancora di dominio pubblico. Uscirà nelle sale il 27 (serata di gala al Visionario dalle 21) con l’anteprima nazionale di domani, lunedì, sempre alle 21 al Cinemazero di Pordenone. Con Fasulo e Branko in platea. «Non sarò a Udine - spiega lo sloveno - il nuovo tour teatrale non mi concede distrazioni».

Proprio perché ancora conosciuto solamente su carta, crediamo che due righe siano utili a spalancare orizzonti. «Ancor prima di un film su un camionista è un film sui un paradosso, scrive il regista friulano: quello di un lavoro che ti porta a vivere lontano dalle persone care per le quali, in fondo, stai lavorando».

- E lei di quale sistema si è servito per entrare nel meccanismo?

«Dovevo capire innanzitutto la differenza fra me e lui, cercando di eliminare i sentimenti, la nostalgia, fissare uno sguardo senza parametri. Non interpretare un autista, esserlo».

- Com’è stato vivere rinchiuso in uno sgabuzzino semovibile?

«Si fa. La doccia quando capita e il caffè all’autogrill è un lusso. Ti abitui a guidare per ore».

- Mai avuto paura di non farcela?

«La mentalità slava esclude il concetto».

- Non avevate a disposizione una sceneggiatura vera e propria, ci pare. Quindi?

«S’improvvisava. Con qualche appunto scritto. Ecco perché il mio nome è anche tra gli sceneggiatori».

- Vi siete mai presi a parole lei e Fasulo?

«No, a parte un giorno. Ho alzato la voce. Finita lì. Siamo stati bravi».

- Adesso cosa pensa dei camionisti?

«Sono più tollerante. E se ho davanti un Tir che ne supera un altro in autostrada, non m’incazzo più. Anche un minuto per loro è prezioso. L’ho capito».

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