Caos Venezuela, le testimonianze dei friulani che non riescono a fuggire

UDINE. Bloccati in una terra feconda e generosa che prima li ha accolti e arricchiti, poi traditi con un regime che ha messo sotto scacco la democrazia, rapinando e uccidendo, censurando, violando ogni diritto civile. Sono oltre 200 le famiglie friulane a Caracas che vorrebbero tornare in patria, impossibilitate a lasciare il Venezuela perché prive di passaporto (acquistabile sul mercato nero a prezzi folli, così come il cibo e le medicine), impoverite da un’inflazione spaventosa che ha fatto carta straccia dei loro risparmi, reso invendibili le proprietà e le attività.
Con la dittatura di Maduro, successore di Chavez, la svalutazione del bolìvar è superiore al 500 per cento. Se si contano gli ultimi anni anche oltre il 2000 per cento. E intanto, come riportano alcuni parenti udinesi rientrati in patria prima che la situazione degenerasse in dramma, ogni giorno chi resta in Venezuela rischia rapimenti lampo e rapine.
Il fratello di Oreste, ex presidente del Fogolar Furlan a Caracas, delegato nazionale per le migrazioni dalla Camera di Commercio italiana in Venezuela, teme per la sorte dei familiari rimasti nella capitale. «Mio fratello, 94 anni, ha come unico obiettivo quello di arrivare ai 95: pesa 45 chili, non riesce a fare neanche un pasto al giorno».
Oreste in Friuli è tornato sette anni fa, quando aveva previsto la crisi che avrebbe travolto il Venezuela, dove vivono circa 15mila friulani e 250mila italiani.
Come lui è rientrato “in tempo” un centinaio di corregionali, che oggi vivono il dramma a distanza, continuamente aggiornati dai parenti sulle tragiche notizie che giungono dal Sudamerica: nelle ultime settimane di protesta sono morte 30 persone (quelle presunte oltre 150), 600 i feriti. Nel solo mese di aprile, racconta Franco, nato e vissuto a Caracas, ma poi tornato nella patria dei suoi genitori, i 130mila militari di Maduro (bande armate create dal governo venezuelano dette “Colectivos”) hanno imprigionato 1.566 persone.
Una escalation di violenza di cui nel mondo si parla poco, se non nulla. La censura sta oscurando emittenti e persino il web. Le notizie passano attraverso amici e familiari. Neanche il Fogolar può più essere utile: «È chiuso, la sede è abbandonata da un anno – racconta Oreste – , la mia sostituta è tornata in Italia. Più volte ho scritto alla Regione e all’Ente Friuli nel mondo di questa terribile crisi, annunciando il rientro massivo dei nostri corregionali». Friulani che però non possono partire: la sorella di Susanna, venezuelana sposata con un friulano figlio di emigranti, oggi residenti a Udine, per raggiungere l’Europa dovrebbe comprare un biglietto aereo che costa 7mila dollari.
«Facciamo un appello alla Regione affinché faccia pressione sul governo centrale – chiedono i friulani, terrorizzati per la sorte dei loro familiari rimasti in Venezuela – . Il Ministero degli Affari esteri, il Presidente della Repubblica, e anche il Papa, devono prendere coscienza che sono in pericolo di vita centinaia di migliaia di connazionali.
Bisogna prendere posizione, creare un piano di evacuazione, facilitare l’uscita con qualche escamotage burocratico che aggiri il business dei passaporti. Il presidente della Provincia Fontanini ha riservato fondi per aiutare i nostri friulani del Fogolar, ma non possiamo fare arrivare i soldi fin lì. Nessuno può aiutarli, neanche la Caritas. I militari controllano i soldi, il commercio, tutte le attività». «L’azienda di mio fratello è stata confiscata dallo Stato – aggiunge Franco – , lui spera ancora che qualcosa cambi, ha sposato una venezuelana e vorrebbe restare lì». Un altro suo fratello, geologo, lavorava nel petrolio e oggi è disoccupato, «resiste solo perché ha un figlio universitario».
I racconti drammatici dei friulani scampati alle tirannie del regime sono toccanti, tutti hanno subìto almeno un caso di violenza in famiglia: «Mio cognato è stato rapito per un giorno, rilasciato dopo torture inaudite» riferisce Susanna.
«Ci hanno assalito con la pistola davanti al Fogolar – racconta Celeste, figlia di Oreste – , ero con mio figlio, ci hanno derubato. È poi accaduto anche davanti casa. Una volta due moto mi hanno affiancata al semaforo intimandomi di scendere dall’auto, sono scappata via a tutto gas gridando a mio figlio di stare giù, temendo che ci sparassero addosso. Dopo quell’episodio mio figlio, 12 anni, disse basta. Volle tornare in Italia e così ho fatto. In Venezuela ero un architetto, qui sono disoccupata perché i miei titoli professionali non vengono riconosciuti, ma almeno siamo salvi».
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