Capuozzo reagisce alle polemiche: «Ho solo fatto domande sulle foto di Bucha, mai diffuso fake news»
UDINE. Quelle domande e quei dubbi sulle fotografie dei cittadini ucraini morti nelle strade di Bucha stanno provocando una valanga di reazioni che si ingrossa ogni giorno. E lui, il giornalista friulano Toni Capuozzo, si ritrova al centro di una bufera mediatica che nelle ultime ore si è arricchita di un nuovo capitolo.
Secondo uno studio dell’Isd (Institute for strategic dialogue), l’Italia avrebbe il primato, fra venti Paesi finiti sotto inchiesta, della maggiore condivisione su Facebook di post che sollevano dubbi sul massacro di Bucha. Un primato raggiunto – pare – dopo la presa di posizione di Capuozzo rilanciata da tutte le fonti di informazione.
Capuozzo, come si sente ora che è finito al centro di questa polemica? È infastidito dal fatto che può apparire come un punto di riferimento di negazionisti vari e sostenitori di Putin?
«Intanto vorrei dire che non conosco questo istituto Isd autore dello studio su Facebook. E comunque non sono infastidito perché carta canta. Contrariamente a quello che sostiene qualcuno, io non ho mai diffuso fake news.
Ho soltanto posto alcune domande sulle foto dei cadaveri di Bucha a cui nessuno ha dato risposta. Mi si può dire che le mie domande sono stupide, scomode, sacrileghe, ma sono domande, non affermazioni».
Vuole ricordare quali erano i suoi dubbi su quelle foto? Anche sulla base della sua esperienza di inviato di guerra.
«Mi sono chiesto chi sono quei cittadini ritratti nelle fotografie. Quei corpi sono per strada e attorno a loro non ci sono bossoli, non c’è sangue. Ho anche notato che alcuni avevano al braccio una fascia bianca che fa riconoscere chi collabora con i russi.
Accanto ad altri corpi c’erano razioni alimentari russe. Io mi sono ricordato di un articolo ucraino che parlava dell’arrivo a Bucha, dopo la ritirata dei russi, di squadre ucraine specializzate nel ritrovamento di mine, ma anche nell’individuazione di sabotatori e collaborazionisti.
Dunque mi sono chiesto: questi corpi forse sono stati portati lì da altri luoghi? Sono stati messi sulla strada a beneficio delle telecamere?».
La sua esperienza di inviato l’ha già portata ad affrontare situazioni analoghe?
«Più volte. Per esempio, durante la guerra in Kosovo ci fu una strage di civili a Račak. Dunque erano morti veri, sia chiaro. Ma a fini mediatici furono portati tutti in un unico luogo per dare l’impressione ancora più forte di un massacro di massa».
Qualcuno farà però difficoltà a capire la sua posizione in questa guerra in Ucraina. Vuole chiarire?
«È chiaro che Putin è l’aggressore. Non solo. Vorrei dire che l’Ucraina ha il diritto di difendersi. Ma bisogna anche capire a che punto siamo. Ormai Kiev è salva, così come il governo ucraino. La Russia sta puntando sul Donbass, dove da anni è in corso un conflitto.
Dobbiamo chiederci se adesso questa è la nostra guerra. Io dico di no. È diventata una contesa regionale, una guerra civile. Va risolta con i negoziati e non con il rifornimento di armi».
Ma ritiene che nel panorama internazionale ci sia la volontà e la capacità di mediare, di arrivare a negoziati che possano porre fine alla guerra?
«Non vedo grandi figure in grado di poter sedere al tavolo dei negoziati, né in Europa, né negli Stati Uniti. Solo il papa ha la statura per poter portare le parti alla pace, ma non è un politico. Dunque la situazione mi preoccupa.
L’assenza di mediatori sta facendo durare a lungo questa guerra e ogni giorno in più significa aggiungere vittime innocenti, con dietro l’angolo il rischio di gravi incidenti fra le grandi potenze».
Come giudica il ruolo dell’Italia in questo panorama internazionale?
«Nella storia recente non si era mai visto l’Italia inviare armi come sta avvenendo adesso, con la fornitura di mezzi corazzati. Teniamo presente che a causa delle sanzioni dovremo fronteggiare difficoltà sociali ed economiche.
Ecco che, anche sul fronte mediatico, vedo il tentativo di preparare l’opinione pubblica a questa escalation. Mi pare ovvio quindi che ci sia una campagna che faccia scaldare gli animi e che convinca della necessità di affrontare il conflitto. Un conflitto che potrebbe durare ancora a lungo. L’Italia, invece, dovrebbe avere la forza di mettere in campo tutte le sue capacità di mediazione».
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