Centrodestra, Parisi frena Fedriga per le elezioni regionali
UDINE. Il destino del centrodestra non può essere legato a un futuro a trazione leghista perché regalare al Carroccio la guida della coalizione – in Italia come in Fvg – significa «perdere e consegnarsi a Grillo».
Stefano Parisi tira diritto per la propria strada, schiva gli attacchi dei “falchi” leghisti e forzisti, e non arretra di un millimetro nella sua convinzione: per vincere, il blocco conservatore ha bisogno di un leader moderato in grado di consentire «alla grande maggioranza liberale di questo Paese di sprigionare tutta la propria forza».
È una chiacchierata lunga e approfondita quella che l’ex candidato sindaco di Milano rilascia al Messaggero Veneto. Incaricato da Silvio Berlusconi di provare a ricucire il centrodestra italiano ritarandolo su nuovi schemi, gira la Penisola con il suo “Megawatt-Energie per l’Italia” e ieri ha fatto tappa in Fvg dove, a Udine, ha incontrato gli amministratori locali dell’area conservatrice.
L’imprenditore prestato alla politica – come si leggeva sul portale personale aperto all’epoca della candidatura milanese – ha le idee chiare per riuscire a portare a termine quella “rivoluzione liberale” fallita negli anni d’oro del Cavaliere.
Per Parisi l’Italia ha bisogno di cambiare passo, radicalmente, e politica. Meno Stato e più privato, digitalizzazione indispensabile ed efficientamento del sistema-Paese sono le parole d’ordine di un uomo che non può, da conformazione e valori personali, non essere profondamente federalista in economia e pure in politica.
E in questo senso l’assist lanciato ai vertici locali di Forza Italia (ma in linea generale all’intera coalizione) è, pur implicitamente, di grande valore: basta con i “Visitors” calati da Roma o Milano perché saranno i territori a scegliere direttamente i loro candidati e rappresentanti.
Parisi, il centrodestra, a partire da questa regione, pare più in salute di quanto si aspettassero in tanti. L’opera di fine tessitura che sta tentando da qualche mese a questa parte, però, non pare così facile. Toti, per citare l’ultimo caso, l’ha definita un “mago Merlino” destinato a schiantarsi...
«Il centrodestra si sta ricostruendo, e mi pare sempre più evidente, anche se credo che non tutti si siano accorti di come il nostro futuro si giochi adesso, non fra qualche mese».
Intende al referendum costituzionale di dicembre?
«No, prima. Già da sabato (domani ndr) quando noi saremo a Padova con “Megawatt” e la Lega, invece, andrà a Firenze. Forza Italia dovrà decidere da che parte stare o lo cominceremo a capire fra poche ore. Toti? Dice le stesse cose di Salvini, non mi stupisce affatto che vada in Toscana e non venga in Veneto».
Salvini, però, non fa mistero di voler diventare premier e qui in Fvg Fedriga ha accelerato dicendosi da tempo disponibile a candidarsi alla presidenza della Regione...
«Un centrodestra a trazione leghista, anzi, a trazione leghista salviniana, è destinato a non intercettare i voti moderati e quindi a perdere. Appiattirsi sul Carroccio vuol dire semplicemente consegnarsi a Grillo. Non è la nostra idea e non rappresenta nemmeno il “mandato” ricevuto da Berlusconi che invece mi ha chiesto di rivitalizzare l’area popolare e liberale di questo Paese affiancando allo zoccolo duro di Forza Italia forze e settori nuovi della società».
Anche a costo di rompere con la Lega?
«Dipenderà dalla legge elettorale, ma questi discorsi li affronteremo più avanti. La nostra non è un’operazione come quelle del passato. Non si tratta di portare a termine un passaggio di testimone, ma di creare un modello nuovo di comunità politica svincolato dai concetti di partiti novecenteschi ormai privi di prospettiva».
Una comunità verticistica o che lascerà ai rappresentanti locali libertà d’azione e di rappresentanza?
«Forza Italia in passato ha compiuto molti errori sradicando i territori senza lasciare che le classi dirigenti delle “periferie” esprimesse i candidati. Così, spesso, gli eletti non conoscono nulla delle aree che dovrebbero rappresentare e abbiamo allontanato la base. Non succederà più. La linea verrà dettata, in ambito locale, dai territori. Saranno i dirigenti locali a scegliere i candidati e, in caso di errore, a doversi fare carico delle decisioni prese. Governare il Fvg non è come governare la Sicilia ed è corretto che chi conosce da vicino la situazione si muova come ritiene più opportuno per il bene della sua terra».
Le primarie sono un concetto troppo di sinistra per essere applicato anche al centrodestra?
«Dipende come le intendiamo. Se parliamo del modello americano, dove un cittadino si presenta a votare con la scritta Repubblicano o Democratico stampata sulla propria scheda elettorale e sceglie esclusivamente all’interno del proprio partito, è un discorso. Di tutt’altro avviso, invece, sono le primarie all’italiana. In linea generale però sono in ogni caso contrario. Le leadership devono prendersi le responsabilità di compiere le scelte. Francamente mi sembra troppo facile rivolgersi alla “base” senza decidere in prima persona. Un leader che non sa scegliere non è tale».
Un passaggio fondamentale, per il futuro politico dell’Italia, è il referendum. Ma il suo è un no alla riforma proprio convinto o soltanto di facciata?
«Al di là di quello che sento dire in giro, sono totalmente contrario a un pessimo testo che non porta alcun miglioramento al Paese. Fate conto che io non avrei nemmeno eliminato delle Province in cambio di un presunto risparmio economico del tutto irrilevante. E voterei no anche se Renzi non avesse deciso di trasformare la consultazione popolare in un referendum sulla sua persona».
I sondaggi sono tutti a favore del no. Pur prendendoli con le pinze, come ci insegnano Brexit e Stati Uniti, com’è possibile che il premier in così poco tempo abbia dilapidato una parte consistente della fiducia che gli avevano dato gli italiani?
«Per due motivazioni. La prima, d’ordine oggettivo, è legata al fatto di essere arrivato a palazzo Chigi senza legittimazione popolare promettendo al Paese una rivoluzione mai attuata. Il secondo, invece, è soggettivo e legato al suo carattere: basta guardarlo negli occhi per capire che racconta una bugia dietro l’altra».
In Fvg governa Serracchiani, cioè la sua numero due...
«Sì, una presidente che ha scelto di avviare una serie di riforme senza ascoltare il tessuto economico e sociale del Fvg. Non ci trovo nulla di sorprendente considerato che ha la stessa cultura di Renzi e si sta avviando sullo stesso destino. Questi giovani del Pd sono tutti uguali: se vengono contestati rispondono con slogan accusando gli altri di essere “vecchi”. E così la gente al momento del voto li punisce. Come è successo, recentemente, in Fvg. Questa regione ha potenzialità enormi. È un territorio ricco, possiede una storia e una tradizione industriale profonda, è strategicamente posizionato al centro dell’Europa e può sfruttare l’arma dell’Autonomia. Sta a noi, soprattutto ai rappresentanti locali del centrodestra portarlo a tornare a essere grande».
Questo significa che lei non è il rottamatore del centrodestra?
«La rottamazione è una stupidaggine. Io sto cercando di costruire una squadra in cui all’esperienza dei tanti validi amministratori di centrodestra possano essere aggiunti dei nuovi tasselli».
La “rivoluzione liberale” è fallita con Berlusconi. Adesso ci sta riprovando lei, ma con quali punti chiave nel programma?
«La crescita economica non passa per il sistema pubblico, bensì per il privato. Dobbiamo tagliare la spesa statale, ma non come è stato fatto sino a questo momento lasciandone immutato il perimetro d’azione complessivo. La digitalizzazione della burocrazia è fondamentale per le imprese così come il federalismo fiscale, che responsabilizzi i territori, per i Comuni italiani. Il Paese è fermo e dobbiamo farlo ripartire anche per evitare che l’Italia cada nelle mani di piccoli “Trump italiani” visto che il popolo vota, sempre, con il Pil che si trova in tasca».
Se ne parla da decenni...
«Lo so, ma dobbiamo capire che ci stiamo avviando verso un concetto di democrazia nuova che non può essere ancorata ai paletti del secolo scorso. Ci possono essere, ad esempio, associazioni che lavorano sugli stessi temi in territori diversi, ma i cui rappresentanti non andranno mai a riunioni di partito. Non possiamo abbandonarle al loro destino, dobbiamo prendercene cura, metterle in rete e, nel caso, aiutarle a diventare lobby».
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