Chernobyl 1986-2016, quella nube invisibile che spaventò il Friuli

UDINE. Era invisibile, impalpabile, eterea. Eppure la nube radioattiva di Chernobyl spaventò il Friuli Venezia Giulia, la regione italiana più vicina all’Ucraina, epicentro del più grave disastro nucleare della storia. Accadde giusto 30 anni fa, un tempo ormai lontano, sufficiente per tirare qualche bilancio.
Secondo medici ed esperti, infatti, le ipotesi più catastrofiche che si fecero all’epoca, circa un aumento esponenziale di malattie causate da iodio e cesio, gli elementi dannosi e contaminanti, sono rimaste tali.
Non si è verificata un’impennata di tumori legati alla radioattività. E l’acqua e i cibi non sono stati “intaccati”. A differenza di quanto accadde tra Ucraina e Bielorussia, nell’area più colpita, dove le gravi patologie alla tiroide tra i giovani e le donne incinte aumentarono di 30 volte rispetto al normale nei primi 5, 6 anni dall’esposizione. E ancora oggi quelle popolazioni soffrono e sono alle prese con gravi disagi.
Ma nei giorni di fine aprile 1986 il nostro Friuli sembrava davvero in prima linea. Le notizie drammatiche si rincorsero fin da quel 26 aprile, però la nube vera e propria, con il suo carico di ansia, varcò il confine con l’Austria solo il 30 e si allargò un po’ a macchia di leopardo tra la Carnia e il Tarvisiano, Udine e il Pordenonese, fino a raggiungere, tra il 2 e il 3 maggio Emilia Romagna e Toscana, per poi disperdersi.
Che la situazione fosse grave lo si percepì quasi subito, come ricordano i testimoni dell’epoca. «Il prefetto Larosa - dice oggi Gianfranco Cattarossi che trent’anni fa era il presidente dell’allora Usl udinese - convocò subito un vertice con tutti gli apparati sanitari. Si mossero un po’ tutti, in primis l’istituto di igiene e profilassi, poi la medicina nucleare dell’ospedale diretta dal professor Englaro, gli esperti, i tecnici.
Non furono emanate linee guida, ma le raccomandazioni alla popolazione erano chiare: non mangiare verdure a foglia larga, cuocere comunque tutte le verdure, evitare la raccolta di funghi nei boschi, vietare, per qualche giorno, il latte ai bambini. Non sapevamo cosa poteva succedere, perchè nessuno aveva mai fatto i conti prima con qualcosa del genere». Qualcuno, forse eccessivamente allarmato dalle notizie che giugevano da Chernobyl, si spinse anche a ipotizzare l’evacuazione di alcuni centri montani del Friuli, cosa che poi per fortuna non fu messa in pratica.
Nei laboratori di fisica delle varie scuole superiori i professori, con lo strumento che misurava la radioattività, dimostravano come i valori riscontrati fossero ben superiori al normale. Insomma un clima tutt’altro che sereno. Però la grande paura non ha provocato ricadute sanitarie, almeno alle nostre latitudini. «Il cesio e lo iodio - afferma il professor Franco Grimaldi, direttore di Endocrinologia, malattie del metabolismo e nutrizione clinica a Udine - furono le sostanze liberate dalla nube.
Lo iodio “decade”, cioè smette di essere pericoloso, dopo poco tempo, per il cesio lo stesso processo dura invece un periodo più lungo, anche anni. In Bielorussia e in Ucraina vi fu un fortissimo aumento di patologie della tiroide, i danni maggiori li subirono bambini e donne in gravidanza.
Ma in Friuli Venezia Giulia l’effetto negativo non c’è stato. Qui da noi c’è una problematica legata alla tiroide, però non è correlata a Chernobyl. In ogni caso solo il 5% dei tumori della tiroide sono di carattere maligno, gli altri si possono curare con risultati ottimi. In caso di un qualche coinvolgimento in un disastro atomico è consigliabile distribuire alla popolazione a rischio pastiglie di iodio per proteggere la tiroide. Noi a Udine lo consigliammo anche all’epoca, ma ogni struttura sanitaria si regolava come meglio credeva, non esisteva un protocollo nazionale».
Anche il dottor Paolo Pecile, per anni responsabile del pronto soccorso pediatrico all’ospedale di Udine, ritiene che lo sviluppo di tumori non sia correlato direttamente al disastro di 30 anni fa.
«All’epoca si presero delle precauzioni doverose - dice -, ma vi fu più che altro un problema di rassicurazione della gente. Io personalmente ero abbastanza tranquillo». Il dottor Renato Padovani, allora responsabile della Medicina nucleare, scrisse alla fine di quel 1986, un libro dal titolo “La contaminazione radioattiva dopo l’incidente di Chernobyl in provincia di Udine”, dove fornì molti elementi di analisi, che risultarono preziosi anche in seguito.
Il maledetto incidente avvenne il 26 aprile 1986 all’1.23 di notte, mentre la centrale stava effettuando un esperimento definito come test di sicurezza. Si voleva verificare se la turbina accoppiata all’alternatore potesse continuare a produrre energia elettrica sfruttando l’inerzia del gruppo turbo-alternatore anche quando il circuito di raffreddamento non produceva più vapore.
Per consentire l’esperimento vennero disabilitati alcuni circuiti di emergenza. Il test mirava a colmare il lasso di tempo di 40 secondi che intercorreva tra l’interruzione di produzione di energia elettrica del reattore e l’intervento del gruppo diesel di emergenza. Questo avrebbe aumentato la sicurezza dell’impianto, che avrebbe provveduto da solo a far girare l’acqua nel circuito di raffreddamento fino ad avvenuto avvio dei diesel.
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