«Collio e prosciutto di Sauris: il Friuli mi mette nostalgia»
GEMONA. Se il cibo riassume il problema primo e la sapienzialità più antica dell’uomo, il quale è ciò che mangia; se tra le risorse alimentari e l’uso del territorio c’è un nesso inscindibile, arriva forse un po’ tardiva l’assegnazione del premio Gamajun a Carlìn Petrini, inventore di Slow Food, di Terra Madre e dell’Università delle Scienze Gastronomiche di Pollenza, atteso lunedì in Friuli.
Lui, unico italiano inserito da The Guardian nell’elenco delle «cinquanta persone che potrebbero salvare il mondo», dice che la cosa è possibile, ma solo traguardando diversamente la realtà.
– Tema 2013 del Laboratorio Internazionale della Comunicazione, in corso a Gemona, è L’Italia che saremo. Come la immagina?
«Un’ottica che guardi solo all’Italia in tempi di globalizzazione non funziona. Per elaborare risposte adeguate alla crisi entropica che attraversiamo occorre pensare a nuovi schemi, a interazioni molto più vaste. Cercando di non accumulare altri ritardi, perché il sistema inizia a segnalare rischi di irreversibilità».
– Il mercato del lavoro asfittico e i problemi sociali, però, remano contro...
«Io dico che la crisi rappresenta una grande opportunità di mettere in discussione modelli e comportamenti che si sono rivelati deleteri per il pianeta come per la nostra felicità. Mi spiego: se dicessimo a nostro nonno che oggi spendiamo di più per dimagrire che per mangiare, trasecolerebbe. E nel mondo vediamo che, dove si vive come ai tempi del nonno, i tassi di felicità dichiarata sono molto più alti del nostro. Abbiamo sostituito l’economia, etimologicamente gestione della casa, con la crematistica, l’accumulo di una ricchezza tutta da discutere, che la casa la sta distruggendo».
– E la risposta è la decrescita felice?
«Sì. Ammaestrati dalla crisi possiamo guardare a un cambiamento cui, in modo indolore, collaborino tutti – perché gli sprechi biblici di risorse alimentari partono dal nostro frigo –, riscoprendo il piacere legato alla morigeratezza, alla convivialità, agli atti generosi. Altrimenti, se non abbiamo imparato niente, rimpiangeremo il vecchio benessere che se ne infischiava dei danni all’ambiente. E la crisi prenderà crescenti valenze di sofferenza».
– Ottimista o pessimista?
«Concordo con Edgar Morin quando dice che tutto deve ricominciare e tutto è già ricominciato. Certo, il guardare attorno mette angoscia; ma esaminando bene la realtà si scopre un grande fiume carsico di pratiche virtuose che scorre in mille rivoli, in Italia come in America o in Africa. E se la governance internazionale è inadeguata, magari ci pensa un’organizzazione mondiale bimillenaria a sparigliare le carte. Perché Papa Francesco non è nato sotto un cavolo, è un segno dei tempi».
– Per venire a fatti locali: che pensa della “legge Realacci” sull’uso dei suoli, e della polemica sollevata da Settis?
«Dobbiamo seguire il rigore di Settis, ma ascoltare anche la generosità di Realacci. Sono certo che, assieme, una quadra la trovano».
– Il Friuli Venezia Giulia com’è messo ambientalmente?
«È appena un pelino più virtuoso della media. Passa, magari col 6 --. Ma è un posto che mette nostalgia. Se penso al fascino del Collio... Ecco, il gusto di andare e il piacere di tornare è il patrimonio che dobbiamo conservare, anche con finalità turistiche.
– E le nostalgie dei sapori?
«Scontate: il prosciutto di Sauris. Ma anche il cotto con il cren. I vini, naturalmente, con una nota per il terrano, un tempo secondo a nessuno per ostilità riscossa, oggi evolutosi al punto da trasformare in fan un langarolo come me. E tutta la cucina di pesce».
– Made in Friuli, Made in Italy. Hanno ancora forza i marchi territoriali?
– Oggi si deve avere a cuore il benessere dei contadini e degli artigiani dell’alimentare. L’appeal da solo non funziona se non paghiamo bene il produttore. La figura peraltro è da reinventare, perché lo stereotipo del contadino non tornerà più. Ma i giovani devono riscoprire la gioia del rapporto con la terra».
– È stato nel comitato promotore del Pd. Come lo vede?
«Messo male. È rinchiuso in paradigmi obsoleti, privo di idealità. E incapace di cogliere quella richiesta di cambiamento di cui parla Morin».
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