Corruzione, Danieli danneggiata I giudici: ora si indaghi su Italease

UDINE. Se l’ex tesoriere della Danieli di Buttrio, Maurizio Mian, era il corrotto, i vertici della Banca Italease di Milano con i quali era in contatto erano i suoi corruttori. E se lui rappresentava l’uomo capace di garantire la sottoscrizione dei contratti da parte dell’azienda friulana, loro erano i dirigenti che da quegli investimenti traevano beneficio. Gli uni e gli altri complici, quindi, nella spartizione delle provvigioni per il sistema di false mediazioni ideato ai danni, in primis, della stessa banca.
Ecco perchè, secondo il tribunale collegiale di Udine, che lo scorso 6 giugno ha inflitto a Mian una pena di 3 mesi e 10 giorni di reclusione e 500 mila euro di provvisionale sui danni da liquidarsi alla parte civile in separata sede, per il reato di corruzione tra privati, la Procura dovrà avviare un’analoga inchiesta anche a carico di tutti loro.
Dando così vita a una nuova costola del maxi-processo che, a Milano, li aveva già visti finire condannati con l’accusa di appropriazione indebita. L’indicazione emerge dalla lettura delle motivazioni della sentenza che è stata depositata qualche giorno fa in cancelleria. La prima - a ulteriore riprova della notevole portata del dispositivo - finora pronunciata in Italia dall’entrata in vigore della riforma del 2012 in materia di reati societari.
“Buco” milionario. Il caso è quello scoppiato a seguito della scoperta della pesante esposizione nella quale la Danieli si era venuta a trovare, tra il 2003 e il 2004 (circa 11 milioni di euro, saliti a una trentina nel 2006), a causa di una dozzina di contratti derivati che l’allora tesoriere aveva sottoscritto con la Italease e che il gruppo aveva deciso poi di estinguere, a fronte di una perdita di 18,5 milioni di euro.
Di quel “buco” l’azienda ritenne responsabile Mian, 48 anni, di Gorizia, soltanto in un secondo momento, cioè non appena, leggendo un articolo pubblicato sul “Sole 24 ore” nel maggio del 2008, apprese dei malaffari di cui erano accusati proprio alcuni dirigenti della banca milanese e il suo stesso dipendente.
Rimbalzata per competenza dal capoluogo lombardo a quello friulano, l’indagine avviata sulla scorta della querela presentata dal legale della Danieli, avvocato Maurizio Miculan, era sfociata in breve nel procedimento culminato prima nella riqualificazione dei fatti - come chiesto dal pm Marco Panzeri e dagli stessi denuncianti - dal reato di infedeltà patrimoniale a quello di corruzione tra privati, e, tre mesi fa, nella condanna dell’imputato.
Nel mirino i corruttori. «Trattandosi di un reato plurisoggettivo - spiega l’avvocato Miculan -, l’ipotesi dell’infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilià, prevista dall’articolo 2635 e più semplicemente conosciuta come corruzione tra privati, contempla anche una responsabilità del corruttore. E visto che si parla di un danno patito e consumato alla Danieli, la competenza del caso spetta alla Procura di Udine».
Da qui, la decisione del tribunale (presidente Carla Missera, a latere Emanuele Lazzàro e Matteo Carlisi) di trasmettere gli atti ai colleghi di via Lovaria, «per valutare - si legge in sentenza - la posizione di Carlo Goldoni, Pino Arbia, Gianluca Montanari, Massimo Faenza, Roberto Fabbri e Massimo Sarandrea, oltrechè Antonio Befenati e Trogu, in ordine alla configurabilità nei loro confronti del reato di corruzione tra privati».
La gallina d’oro. Decisivo, ai fini della sentenza di Udine, anche l’esito del processo celebrato a Milano a carico di Mian e dei vertici Italease e approdato nel 2010 alla sua condanna a 1 anno 7 mesi e 10 giorni, confermata dall’Appello nel 2012 e passata in giudicato il 28 maggio scorso, dopo la dichiarazione d’inammissibilità del ricorso da parte della Cassazione. Soffermandosi sul tipo di dolo attribuibile all’ex tesoriere, il collegio udinese ha riconosciuto come accertato soltanto quello generico nella forma eventuale.
«È evidente - scrivono i giudici - che non vi fosse l’intento di danneggiare la Danieli e ciò perchè si era rivelata una “gallina d’oro”, essendo una società con forte liquidità e disposta a sottoscrivere contratti per importi elevati. Tuttavia, il criterio che guidava Mian nella scelta dei contratti - continuano - non era quello del miglior interesse per la Danieli, ma della massimizzazione dei guadagni. Si propendeva per i contratti che offrivano le più elevate provvigioni: quelli più profittevoli per la Banca e quindi più rischiosi per il cliente».
La “debolezza” della Danieli, se così si può dire, fu appunto questa. «Nessuno entrò mai nel merito delle scelte di Mian - è scritto ancora nelle motivazioni -, perchè ci si fondava sull’errato presupposto della lealtà di Mian verso l’azienda. Convinti, quindi, che si trattasse di strumenti finanziari coerenti con il suo business industriale».
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