Crollò anche il castello: morti e distruzione a Mels

Il terremoto del Friuli 40 anni dopo. Un altro simbolo del Friuli cadde a pezzi. I ricordi dell’allora sindaco di Colloredo di Monte Albano Roberto Molinaro

COLLOREDO. «Sono crollate tutte tre le torri del castello di Colloredo». Il terremoto non risparmiò neppure il maniero dove Ippolito Nievo scrisse “Le confessioni di un italiano”. A illuminare quel che restava delle torri dove il terremoto sorprese gli ospiti del nobile Gianandrea Gloppero di Troppenburg nel bel mezzo di una festa, furono i fari di un’auto della polizia.

La gente impaurita con le coperte sulle spalle per ripararsi dall’umidità della notte, non credeva ai suoi occhi: uno dei simboli del Friuli era crollato e quell’assenza, a chi tentava di avvicinarsi alla zona terremotata, dava il senso della tragedia che si era appena abbattuta sul Friuli.

Lungo la strada panoramica gruppi di persone incrociavano gli sguardi e percepivano che pochi chilometri più avanti, nella frazione di Mels, si contavano i morti. Erano otto, decine i feriti. Le case e le chiese di Colloredo di Monte Albano erano sventrate e gli uomini e le donne, con le torce, illuminavano solo macerie.

Era la sera in cui il movimento giovanile della Democrazia cristiana aveva radunato, nella sede di via Gorghi, a Udine, i suoi iscritti per decidere le candidature alle elezioni politiche che si sarebbero tenuto da lì a poco.
 
A quella riunione partecipava anche il giovane consigliere comunale eletto l’anno prima, Roberto Molinaro diventato poi il factotum del sindaco, Luigi Taboga. «Avvertimmo la scossa, non ci rendemmo conto di cosa stava succedendo, ma finimmo la riunione nella piazzetta vicina».
 
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Arrivarono le prime notizie, le linee telefoniche erano saltate e anche Molinaro, studente universitario che alloggiava dagli zii per prendere il treno che tutte le mattine lo portava a Trieste, trascorse la notte in una Fiat 600. All’alba si avviò verso Colloredo e non vedendo, a distanza, le torri del castello capì che si trattava di una tragedia.
 
La gente era radunata negli spazi aperti con le coperte sulle spalle, la strada oltre Colloredo era sbarrata. Molinaro intuì che il terremoto stava per cambiargli la vita. E così fu perché, queste le sue parole, «in municipio c’era il caos. Nei mesi successivi quel luogo divenne la mia casa». Lavorava al fianco del sindaco, curava soprattutto i rapporti con i soccorritori, coordinando gli aiuti.
 
Nell’immediatezza si pensò ai morti e ai feriti. Le vittime erano tutte concentrate nella frazione di Mels dove il terremoto picchiò più duro. Le case antiche erano crollate e, in molti casi, si erano portate via anche chi le abitava. Nonostante la tragedia, la gente che, in quella zona, lavorava i campi e allevava il bestiame, non se ne voleva andare.
 
«Il problema era la sistemazione delle persone - ammette Molinaro - tutti volevano le tende fuori casa». I friulani temevano che lo spostamento nei campi di raccolta fosse per sempre. Le immagini del Belice erano impresse nelle loro memorie e fin dai primissimi istanti riaffiorarono.
 
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«Riuscimmo comunque a creare le tendopoli non solo a Colloredo, ma anche a Mels e a Caporiacco». La gente accettò le tendopoli anche perché, contemporaneamente, agli agricoltori venivano assegnate le roulotte. «In quell’estate - continua Molinaro - distribuimmo decine di bobine di nylon, la gente le chiedeva per coprire ogni cosa».
 
Si trattava di recuperare il possibile e in questa corsa contro il tempo fu determinante la lunga colonna di soccorritori che dal 7 maggio giunse in Friuli. «Accanto all’esercito e a vigili del fuoco, a Colloredo operavano gli austriaci» insiste Molinaro tornando con la memoria a quei giorni.
 
Dopo l’emergenza
 
Erano i giorni in cui lo Stato gettò le basi per approvare gli strumenti legislativi che consentirono ai friulani di ricostruire il Friuli. «Il 16 maggio - fa notare Molinaro - lo Stato scrisse il decreto legge 227, l’articolo 1 conteneva tutto l’impianto ordinamentale della ricostruzione. È vero che c’era dietro Moro, ma chi scrisse quello strumento aveva una visione ampia».
 
Lo scoprirono poi perché in quelle ore c’erano altre emergenze da affrontare. Non ultima quella degli aiuti. «A Colloredo siamo stati fortunati - racconta Molinaro - abbiamo avuto presenze che hanno lasciato il segno».
 
Bergamo è una di queste. «Il giornale cattolico l’Eco di Bergamo, due giorni dopo il sisma, fece partire una sottoscrizione e assieme alle istituzioni locali scelse di intervenire a Colloredo. Una commissione tecnico amministrativa, coordinata dall’architetto Sandro Angelini, composta dai rappresentanti di Comune, Provincia e altri enti, gestiva buona parte della sottoscrizione.
 
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A Mels costruirono 10 alloggi, altri 3 a Colloredo. «C’è stata una presenza di tecnici e volontari che hanno supportato l’intera ricostruzione». A Mels una presenza altrettanto robusta era quella di Lienz.
 
Da oltre confine arrivava il legname nel dopo emergenza e quegli aiuti consentirono di costruire, anche con fondi del governo austriaco, la Casa della musica.
 
«A Mels avevano un uomo straordinario che era don Leopoldo Ermacora. La canonica era un punto di riferimento per tutti. Don Leopodo seppe muoversi bene anche negli anni successivi, tant’è che la chiesa di Mels fu la prima a essere finanziata con fondi pubblici».
 
Chiesa e istituzioni
 
A distanza di 40 anni, Molinaro rilegge anche i ruoli svolti dalla Chiesa e dalle istituzioni. Lo fa riconoscendo all’arcivescovo Alfredo Battisti «sicuramente il merito di essersi reso interprete delle aspettative della gente che, sbagliando, pensava che le istituzione non se ne facessero carico».
 
Un pensiero solo teorico secondo Molinaro: «Era impossibile - aggiunge - che le istituzioni non si facessero carico delle esigenze delle comunità perché erano dentro le comunità. Lo confermò la scelta di mantenere l’assetto dei paesi piuttosto di immaginare la grande Udine».
 
E se a fare la differenza sono state le persone presenti sul territorio, don Leopoldo Ermacora era sicuramente tra queste. «A distanza di tempo, leggendo gli atti dell’Assemblea dei cristiani si capisce che c’era una qualche incomprensione. C’era tanta rabbia.
 
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La ricetta vincente fu il rapporto tra le istituzione e le persone» continua il politico d’altri tempi convinto che «nei fatti c’era la valorizzazione delle autonomie, la Regione prima e i Comuni poi, come protagoniste della ricostruzione. Questa scelta portava necessariamente a un accordo. Chi c’era e chi l’ha vissuto sa che, indubbiamente, monsignor Battisti ha portato la Chiesa ad avere un peso non da poco, ma se accanto a questo non ci fosse stata l’efficienza da parte delle amministrazioni pubbliche non si sarebbe fatto niente».
 
I partiti erano strutturati. «Tutto faceva parte di un contesto che ora non riusciamo a immaginare. Comelli mi raccontò della riunione quando Moro gli chiese se voleva gestire la ricostruzione, disse sì perché sentiva il peso forte della rappresentanza istituzionale» insiste Molinaro nel ribadire che «il rapporto diretto tra istituzione e comunità è stato vincente».
 
L’esodo
 
Nell’estate 1976 a Colloredo come altrove ci fu un intervento massiccio di ristrutturazione delle case. Arrivò il secondo terremoto e il 15 settembre il Friuli piombò di nuovo nella disperazione.
 
«Si pose il problema dell’adeguamento antisismico. Era un problema tecnico e psicologico, la gente si rendeva conto che il terremoto poteva tornare. Si rese conto che non bastava rimuovere le macerie, era necessario garantire la sicurezza» insiste l’ex sindaco non senza far notare che alla fine dell’anno successivo 850 persone erano alloggiate nei prefabbricati.
 
Erano rientrate dagli appartamenti di Lignano dove avevano trascorso l’inverno. L’esodo fu un momento complicato per tutti. Da qui all’avvio della ricostruzione il passo fu breve.
 
 
«Le persone si indebitavano per rifare le case e le aziende. E tutto questo era possibile perché la legislazione del terremoto aveva strutture semplificate, con assunzione di responsabilità diretta da parte dei sindaci».
 
Ecco le cifre: «Dieci anni dopo solo 50 persone erano ancora nei prefabbricati. Erano stati erogati 14,2 miliardi di contributi per la riparazione e la ricostruzione delle case senza contare i 4,2 miliardi spesi per le opere pubbliche».
 
Il castello
 
Simbolicamente, il crollo del castello di Colloredo di Monte Albano fu paragonato alla distruzione del duomo di Venzone e di Gemona. Crollò un simbolo che lo scrittore Stanislao Nievo non mancò di evidenziare anche sulle pagine de “La Fiera letteraria”.
 
«Mio padre aveva steso il suo corpo e le sue braccia sopra mia madre e mia zia, in un’estrema difesa. Al termine dell’immenso rumore si alzò, aprendosi un varco verso quella che era stata la porta interna del castello. Semisepolta aveva retto l’urto, grazie al piccolo e poderoso arco romano che la sovrasta. Davanti a mio padre sorse la luna e la nuova realtà apparve. Quasi tutto era crollato intorno».
 
Il caso finì all’attenzione del Comune di Milano. Ma nonostante ciò era impossibile risolvere il problema dalle dimensioni inimmaginabili. Si trattava di recuperare circa 48 mila metri cubi frazionati in numerose proprietà. Ventisette secondo la schedatura effettuata dai gruppi di rilevazione danni nell’estate 1976.
 
«Le abitazioni occupate al momento del terremoto - spiega Molinaro - costituivano una piccola percentuale rispetto al compendio interamente vincolato dalle Belle arti». Anche in questo caso la forza della comunità fu determinante.
 
Sono in molti a ricordare il cartello «risorgerà» comparso sulle macerie. Quell’auspicio è diventato realtà. «La Soprintendenza alle Belle arti - ricorda Molinaro che fin da bambino si perdeva nei meandri del castello - eseguì numerosi puntellamenti e, in primis, recuperò gli affreschi di Giovanni da Udine e la torre Porta».
 
 
Questo prima che la Comunità collinare acquistasse l’ala ovest. La svolta vera, però, arrivò nel 1982 quando «il presidente della Regione, Antonio Comelli, prese a cuore il problema e portò il caso a livello nazionale». Nella dimora del Nievo arrivò anche l’allora ministro dei Beni culturali, Antonino Gullotti.
 
Erano le premesse per «affidare il restauro di un bene vincolato a un ente locale». Lo prevedeva la legge 879/1986. «In questo contesto - insiste Molinaro - si fece strada l’idea di una legge regionale specifica per il recupero del castello di Colloredo».
 
La legge fu approvata il 30 dicembre 1991. Erano trascorsi 15 anni, 7 mesi e 24 giorno dalla notte in cui la furia del terremoto si scaglio anche contro il maniero.
 
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