Curriculum, esperienza e titoli accademici: perché il professor Orsini è un non-esperto
Il professore della Luiss attrae l’attenzione in tv ma non ha titoli accademici per parlare del conflitto in Ucraina. E anche il suo Osservatorio alla Luiss non ha prodotto nulla
ROMA. Ogni crisi fa emergere i suoi esperti. La pandemia ne ha prodotti moltissimi, la guerra in Ucraina, uno su tutti: il Professor Alessandro Orsini. Come nel caso dei virologi, anche lui si è affermato per via della sua casacca di accademico. O meglio ancora, di ricercatore sul campo, o field researcher, come ama dire in inglese. In televisione, il Professor Orsini indossa quella casacca in modo assertivo, impartendo nano-lezioni ricche di termini come «specializzazione delle funzioni».
Ma andando a scavare nel suo percorso scientifico, emergono una dote e un problema. La dote, unanimemente riconosciuta, è la sua devozione allo studio. Il problema è messo in evidenza dal Professor Francesco Ramella, sociologo dell’Università di Torino. «Dietro l’assertività di Orsini, nei Cv che ho potuto visionare online non trovo una singola pubblicazione scientifica sulla materia in cui si cimenta in Tv. Allora mi domando: lo si invita per l’originalità o la profondità del suo sapere scientifico, o perché sa creare un meccanismo morboso di attenzione mediatica?», osserva il sociologo, stigmatizzando «la commistione che avviene in alcuni talk-politici tra il ruolo dell’esperto e quello dell’opinion maker».
Avremmo voluto registrare la replica dal Professor Orsini (su questo come su tutto il resto), ma nonostante ripetute richieste sia per email sia per messaggi al cellulare, il professore così onnipresente nei media, con noi ha optato per il silenzio stampa. Se il sapere scientifico è un qualcosa che viene determinato da altri scienziati – i cosiddetti “propri pari” – si può comunque dire senza timore di smentita che su Ucraina, Russia o questioni geopolitiche in genere, al professor Orsini nessuno ha mai riconosciuto alcuna expertise. Gli è stata semplicemente conferita dai massmedia. Prima con una rubrica su Il Messaggero, che gli ha permesso di pronunciarsi su quelle tematiche, e poi con inviti a parlare agli italiani in quanto esperto ad honorem.
Ma da studioso universitario, e più precisamente professore associato presso il Dipartimento di Scienze Politiche della Luiss, Orsini un’expertise indubbiamente la ha. In un campo soprattutto: quello del terrorismo. Ha infatti pubblicato svariate monografie e ricerche “etnografiche” su terrorismo rosso, nero e jihadista. Abbiamo dunque fatto un approfondimento. Dal suo Cv si viene a sapere che dal 2013 al 2016 «è stato direttore del Centro per lo studio del terrorismo dell’Università di Roma Tor Vergata» e che dai primi del 2017 è «direttore dell’Osservatorio per la sicurezza internazionale della Luiss», due cariche apparentemente importanti in due istituti universitari di tutto rispetto. Ma prodotti scientifici di questi due centri non se ne trovano.
Nel caso del Centro di Tor Vergata, le pagine archiviate in Internet tra il 2013 e il 2016 hanno lasciato traccia solo di una conferenza tenuta due mesi e mezzo dopo la costituzione del Centro stesso. Null’altro per il resto dei tre anni. Ci viene poi spiegato che la struttura «non ha mai fatto nulla», e che «è rimasto sulla carta». Sono parole di Franco Salvatori, all’epoca direttore del Dipartimento di Tor Vergata a cui era affiliato il Centro di Orsini.
Nonostante quel Centro non abbia mai prodotto nulla di scientifico, per Orsini la qualifica di suo direttore è stata invece essenziale nell’acquisizione di visibilità e credibilità mediatica. Nel novembre 2015, dopo la strage nel teatro parigino Bataclan, la giornalista di Sky Tg 24 lo ha per esempio introdotto come «docente di sociologia del terrorismo nonché direttore del Centro per lo studio del terrorismo dell’Università a Roma Tor Vergata». Sulla carta, l’Osservatorio sulla sicurezza internazionale della Luiss risulta nato con l’obiettivo di promuovere ricerche e organizzare eventi pubblici. Ma quando abbiamo chiesto dettagli al direttore del Dipartimento di Scienze Politiche, quello al quale è affiliato Orsini, ci è stato detto che «l’Osservatorio non è supervisionato dal Dipartimento». Né il Direttore delle relazioni esterne né la Direzione Generale della Luiss ci hanno saputo dire chi ha finora avuto la responsabilità di supervisionare le attività del centro di Orsini, o quali attività abbia mai svolto l’Osservatorio. Il 30 aprile, la Luiss ha poi comunicato che «i canali di comunicazione dell’Osservatorio da oggi non sono più attivi».
Laureato in sociologia, con un dottorato in “Teoria e storia della formazione delle classi politiche”, Orsini acquisisce notorietà come esperto di terrorismo grazie al volume Anatomia delle Brigate Rosse, pubblicato sia in Italia (da Rubettino) sia negli Stati Uniti (dalla prestigiosa Cornell University Press). In questo testo, Orsini ci informa che le sue ricerche lo hanno portato a concludere che «il rivoluzionario di professione è un particolare tipo antropologico che presenta le stesse caratteristiche in ogni luogo e ogni epoca». Il primo rappresentante di questo «tipo antropologico» sarebbe stato il teologo anabattista tedesco di fine ‘400 Thomas Münzer. A seguirlo nel corso dei secoli sarebbero arrivati poi il giacobino Robespierre, il bolscevico Lenin, il Khmer Rouge Pol Pot e infine i brigatisti rossi. Avrebbero agito tutti «secondo la stessa logica purificatrice».
Come sottolinea nei suoi Cv, in America il libro è stato accolto con grande interesse. Un po’ meno da esperti italiani come Pino Casamassima, autore di svariati volumi sui brigatisti, incluso il recentissimo Brigate Rosse. Storia del partito armato dalle origini all’omicidio Biagi (1970-2002), un tomo di 1.100 pagine. «Il suo testo sulle B.R. manca totalmente di contestualizzazione e humus di un tempo che aveva prodotto una deriva armata allargatasi in tutta Europa», ci dice Casamassima. «E questo suo astoricismo, molto discutibile, impedisce la comprensione degli aspetti specifici delle motivazioni, degli obiettivi, dell'organizzazione e delle tattiche delle Brigate Rosse».
Critiche di astoricismo a parte, in termini di metodologia sociologica il volume di Orsini offre un qualcosa di molto innovativo, che ha fatto sicuramente colpo sugli americani. Parliamo del cosiddetto Dria (acronimo di Disintegrazione, ricostruzione, integrazione, alienazione), un modello interpretativo del processo di radicalizzazione dei brigatisti che l’autore spiega essere stato «costruito principalmente ricorrendo a testimonianze di brigatisti pluriomicidi», ma anche a deposizioni processuali, risoluzioni strategiche, documenti e lettere private di brigatisti.
Si può dunque immaginare la sorpresa quando, in un post della pagina Facebook del Professore relativo al successivo libro dell’Isis, si parla ancora del modello Dria spiegando che «si basa sull'analisi comparata della vita di 39 jihadisti che hanno realizzato un omicidio o una strage nelle città occidentali». Al di là della discordanza sulla sua origine, il modello Dria sarebbe dunque universale. In altre parole, studiando Sociologia a Trento, Renato Curcio avrebbe ideato le Brigate Rosse in base agli stessi meccanismi che, fumando marijuana a Bruxelles fuori dalle moschee salafite, hanno spinto Abdelhamid Abaaoud a ideare la strage del Bataclan.
Non siamo i soli ad avere delle perplessità. «Ho l'impressione che, con il suo lavoro, Orsini voglia costruire delle tipologie e dinamiche generali, per poi applicarle anche in contesti storici dove non funzionano», ci dice lo storico ed esperto di violenza religiosa della Northern Illinois University Brian Sandberg.
Sul rigore scientifico della metodologia di ricerca sul campo di Orsini, suscita ulteriori perplessità un suo studio pubblicato solo in inglese intitolato A Day Among the Diehard Terrorists: The Psychological Costs of Doing Ethnographic Research (Un giorno tra i terroristi irriducibili: I costi psicologici di una ricerca etnografica).
In quel paper l’autore non fa nomi, ma è facile individuare in Salvatore Ricciardi il «terrorista irriducibile» protagonista della sua «ricerca sul campo». Si tratta di un ex ferroviere dell’Autonomia Operaia entrato nella colonna romana delle Brigate Rosse, che, dopo esser stato arrestato nel 1980, è stato testimone/partecipe della sentenza di «giustizia proletaria» che ha prodotto lo strangolamento in carcere di un terrorista accusato di delazione.
«L'obiettivo dell'articolo», spiega Orsini, «è quello di analizzare i costi psicologici che il sociologo deve pagare nell’interazione con uomini e donne che, oltre a rivendicare con orgoglio il merito degli omicidi che hanno commesso, affermano l'importanza di continuare a uccidere per salvare il futuro dell'umanità». I costi della caccia etnografica, insomma. «Dato che i canali ufficiali non mi permettevano di entrare in contatto con i terroristi irriducibili, decisi che li avrei incontrati facendo quello che i terroristi stessi sono esperti nel fare quando si preparano a uccidere le loro vittime: pedinarli e osservarli di nascosto», spiega l’autore.
«Avendo studiato per molti anni i modi in cui le Brigate Rosse uccidevano le loro vittime, la mia mente era piena di dettagli macabri che avevo analizzato in dettaglio e, mentre guidavo, decisi che io stesso sarei diventato il mio oggetto di studio e quindi cominciai a scrivere i miei pensieri e i miei stati d'animo», continua. A seguire, ci informa di avere avuto ben «nove sogni legati alla paura della morte», e che «tre di questi possono essere classificati come incubi». L’avvincente ricostruzione di questa caccia continua come se fossimo nelle montagne dell’Afghanistan alla ricerca della caverna di Osama bin Laden. Finché non si arriva alla descrizione dell’incontro con la preda: «Mi avvicinai con un sorriso sul volto e chiesi un autografo mentre porgevo la mano per presentarmi, e il terrorista mi accolse con un sorriso che esprimeva il suo piacere per la mia richiesta. Ci siamo stretti la mano». Si viene così a scoprire che la caccia si è conclusa in un centro sociale fuori Roma dove Ricciardi, ormai scarcerato e impiegato di una libreria, stava presentando un volume di suoi pensieri e ricordi davanti a una platea di “irriducibili” lettori.
Pubblicazioni come questa non hanno certamente aiutato Orsini a ottenere il riconoscimento dei colleghi di Sociologia politica, che per due volte di fila non gli hanno riconosciuto l’abilitazione al concorso nazionale di idoneità all’insegnamento universitario di prima fascia, quello dei professori ordinari. Ci è riuscito solo al terzo tentativo, ma in Sociologia generale.
Nel negargli l’abilitazione da ordinario di Sociologia politica, il collega della Luiss, Professor Raffaele De Mucci, ha scritto che nei suoi lavori, «contrariamente all'insegnamento di Weber, è la realtà che deve adattarsi al modello, non viceversa», e ha parlato di «improbabile approccio metodologico». Il Professor Franco Pina, sociologo dell’Università di Torino, ha invece scritto che appare «più proteso a cercare conferme dei suoi schemi interpretativi che a mettere alla prova ipotesi teoriche definite sulla scorta della letteratura o di proprie elaborazioni». Mentre il professor Roberto Segatori, dell’Università di Perugia, ha criticato il suo «certo riduttivismo interpretativo».
In un mondo, come è quello accademico, in cui la reputazione viene data dal parere dei “pari”, questi giudizi sono un pesante fardello. Ma se ci avesse concesso un’intervista, Orsini ci avrebbe sicuramente fatto notare che parte del mondo universitario italiano lo ostracizza dal lontano 2010, quando ha sporto denuncia contro i favoritismi baronali a seguito del mancato assegnamento di un posto all’Università di Chieti. Con tutta probabilità avrebbe anche sottolineato il ruolo che fino al 1° aprile scorso pubblicizzava nella sua pagina del sito dell’Osservatorio: “Research Affiliate al Massachusetts Institute of Technology dal 2011”.
La sua associazione con il prestigioso istituto vicino a Boston è stata per anni cosa nota ai lettori del Messaggero per via del fatto che, pur essendo professore alla Luiss, in coda ai suoi articoli apponeva l’indirizzo di posta elettronica apertogli dall’Mit. Non potendo chiedere a lui dettagli sulla natura del rapporto accademico instaurato con l’Mit, li abbiamo chiesti all’istituto stesso. Ci è stato così spiegato che «Il professor Orsini è stato invitato dal Center for International Studies dell’Mit ai fini di una sua autonoma attività di ricerca e scrittura». Questo significa che, come alla Luiss, anche all’Mit ha lavorato senza alcuna supervisione istituzionale.
Ci viene inoltre detto che «dal 2011 al 2019, il professor Orsini ha visitato il nostro campus come Research Affiliate per una media di 30 giorni all'anno, dimettendosi nel 2022 di sua iniziativa». Sui motivi di quelle dimissioni ci è stato detto che, «per evitare speculazioni, le domande sui dettagli di questa decisione è meglio indirizzarle a lui». Avremmo voluto farlo, ma Orsini non ce lo ha concesso. Siamo però riusciti a risalire all’origine del suo cammino in terra americana. Ad aprirgli la strada è stato il Professor Spencer Di Scala, storico dell’Università del Massachusetts a Boston, che su richiesta dell’amico sociologo Luciano Pellicani, all’epoca mentore di Orsini, lo invitò a stare a casa sua a Boston, aprendogli le porte di varie istituzioni accademiche, Mit incluso.
Accademia a parte, un’altra tacca al curriculum di esperto di Orsini è arrivata nel 2016 quando è stato invitato a far parte della Commissione di studio dell'estremismo jihadista creata dall’allora Presidente del Consiglio Matteo Renzi. Quando chiediamo dettagli sull’apporto scientifico fornito da Orsini alla Commissione, Lorenzo Vidino, direttore del programma sull'estremismo alla George Washington University e coordinatore della Commissione, ci spiega però che è stato nullo: «E’ venuto al primo meeting formale, quello con Renzi, e poi alla presentazione del rapporto finale, ma a nessuna riunione interna. E il suo modello Dria non è stato né adottato né menzionato dalla Commissione».
Questa nostra ricostruzione non fa cenno alle posizioni prese dal professor Orsini sull’Ucraina. E’ cosa voluta, perché non si intende in alcun modo mettere in discussione la legittimità delle sue opinioni di non esperto in materia. E’ difficile però non notare che corrispondono a un’esigenza da lui espressa in un volume pubblicato solo negli Usa - quella di «mettere in discussione il pensiero convenzionale su determinati fenomeni politici». Con l’invasione russa dell’Ucraina, i massmedia italiani gli hanno dato l’opportunità di farlo. E lui ci si è buttato a capofitto
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