Da CoopCa a Marsilio, passando per Roma

Nel caos carnico, sotto il cielo plumbeo della crisi di soldi e di valori che ha travolto CoopCa c’è una buona notizia: l’annunciato rimborso del 50 per cento dei risparmi (versati, congelati e in pratica perduti) ai 3 mila soci. Un’iniziativa “libera” del distretto Adriatico delle coop rosse, portata a casa dal governatore Debora Serracchiani con il vice Sergio Bolzonello, al di fuori delle strette maglie del concordato.

È una buona notizia sia perché è inattesa, non era dovuto, sia perché viene incontro, almeno in forma parziale, al danno che la gestione della coop ha creato alle famiglie senza colpe (se non quella di fidarsi dei propri simili).

E infine perché rianima la fiammella della mutualistica, l’origine sociale delle coop messa in discussione dai fatti della Carnia e più in generale dagli scandali che negli ultimi mesi ci hanno mostrato un’altra faccia di quel mondo. Una notizia che, alla luce del dramma per la morte di Alfio Colussi, il membro del Cda di CoopCa che si è tolto la vita dopo le indagini sul crac, deve imporre a tutti non certo il silenzio, come chi è coinvolto invoca spesso, ma al contrario la massima trasparenza per far sapere tutta la verità.

La verità è infatti il solo antidoto alla tentazione - che la politica a volte ha - di fare le cose di nascosto. Il brutto italico vizio di prendersela con chi denuncia il reato anziché con chi lo compie. Quella sfida a tutto campo che, dalla Carnia a Mafia Capitale, è il banco di prova vero del Pd di Renzi.

Se non si spazza via questa brutta usanza, finisce come a Roma. Dove la fogna sta travolgendo tutto e tutti, mentre la nostra classe politica è impegnata in uno scambio di accuse a tre su chi deve dimettersi. Se volete proprio sapere come la penso io, io la penso in modo diverso da chi dice che Ignazio Marino dovrebbe dimettersi per Mafia Capitale.

Penso semmai che Marino avrebbe avuto ottime ragioni - a detta dello stesso Pd - per lasciare il Campidoglio prima dello scandalo. Ragioni che lo vedono poco adatto al governo della capitale italiana. E penso che, ironia della sorte, il fatto di essere una persona perbene, ma non un bravo amministratore, lo abbia salvato da quelle dimissioni.

Se il sindaco capitolino resta in sella, se il Pd lo difende, è per il motivo opposto a quello che si afferma: lo difende perché lo scandalo Carminati è peggio dei guai causati dall'amministrazione Marino, per cui aristotelicamente essere "meglio del peggio" è sufficiente a restare dov'è.

Eppure, se si somma la bufera romana all'arcinoto caso degli impresentabili alle regionali, all'elenco di Rosy Bindi, alla sorte di De Luca, e chi più ne ha più ne metta, è evidente che la retta del Pd (quella che Di Maio vede passare per tre punti) se vuole restare retta e non pasare davvero per tre punti e diventare circonferenza, parlandosi addosso, deve definire il punto A e il punto B del suo tragitto.

Il punto A è il segno di discontinuità che il governo Renzi ha voluto segnare con il passato del centrosinistra, nel momento in cui è stato deciso di sacrificare l'esecutivo Letta e aprire la nuova fase.

Il punto B sono le elezioni politiche dove si misurerà davvero il consenso e la tenuta del progetto politico renziano. Bene, nessuno sa esattamente (proclami a parte) quanto durerà il tragitto dal punto A al punto B, ma quel che pare evidente è l'inclinazione che il Pd deve tenere.

La barra sul "garantismo", che il premier ha evocato anche ieri a RepIdee a Genova, intervistato da Ezio Mauro, è un valore fondante della sinistra socialdemocratica europea, e di questo gli va dato atto. Ma è anche un valore "rifondante" della sinistra italiana, nel senso che va rispiegato da zero come se fossimo tutti diventati scemi, visto che la sinistra italiana è stata impegnata per anni in una battaglia monocorde contro Berlusconi giocata a colpi di avvisi di garanzia.

A volte per ragioni sacrosante, altre onestamente no. Se, dunque, idealmente il "garantismo ritrovato" a sinistra è una prospettiva giusta, addirittura auspicabile, perché sia anche credibile e venga percepita dagli elettori come un valore aggiunto e non come un calcolo di opportunità politica (tenere il governo in piedi nonostante gli indagati) è necessario che il codice di autoregolamentazione del Pd sia al di sopra di ogni sospetto. E invece così non è, come vediamo ogni giorno.

E come vediamo anche in Friuli Venezia Giulia. Venerdì sera il governatore Serracchiani, durante un convegno, ha detto che se tornasse al 2013, data delle elezioni regionali, non ricandiderebbe tutta la lista del Dem. Il riferimento era all'ex assessore Enzo Marsilio, che in Carnia è finito in una bufera per appalti e appaltucchi, fondi a parenti, e tutta la solita lista di cose-da-non-fare in politica che, anche se non sono formalizzate almeno per ora in alcuna inchiesta, anche se non fossero illegali, sono deprimenti sul piano politico.

E indurrebbero una persona di buon senso a scusarsi con i cittadini e lasciare il posto a qualcun altro. Invece così non sarà, sarebbe troppo normale, troppo poco italiano.

Dovessi scommettere, punterei sul finale al contrario: Marsilio e compari dello scandalo, forti dei numeri risicati del consiglio regionale, minacceranno di lasciare il gruppo del Pd, per pesare politicamente e costringere il partito a difenderli o almeno a non chiedere le loro dimissioni. Finirà all'italiana. Poi, diranno, chi agita questi spettri, chi racconta come vanno davvero le cose danneggia il Friuli. Colpa di chi denuncia. Non di chi compie i fatti da denunciare.

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