Da quella notte alla lunga vicenda giudiziaria: il disastro del Vajont, una tragedia che resta un capitolo aperto
Sembra impossibile ma sui mezzi di informazione e sul web, a sessant’anni dalla tragedia del Vajont e dalle sue duemila vittime, circola ancora una spaventosa disinformazione: si sente e si legge della “alluvione del Vajont”, oppure del “crollo della diga” che avrebbe sommerso Longarone.
Colpa del paradigma memorialistico che ha investito la nostra Repubblica negli ultimi decenni, per cui l’unica cosa che conta è “ricordare”. Ma la mitizzazione della “memoria”, senza la conoscenza della storia, è in realtà una forma di cancellazione pubblica.
Alla fine degli anni ’50 venne costruita tra Friuli e Veneto, lungo il corso del fiume Vajont, la diga idroelettrica allora più grande del mondo, sulla scorta di un progetto che nei decenni precedenti era stato progressivamente ampliato per altezza della diga e dunque portata dell’invaso.
Promotrice ne era stata la Sade, la grande società elettrica che aveva guidato lo sviluppo energetico e industriale del nord-est: pochi mesi prima della tragedia, nel 1963, la Sade sarà statalizzata, assieme a tutta l’industria elettrica italiana.
Del 1957 è la prima relazione che segnala l’instabilità geologica del Monte Toc che sovrasta il futuro invaso, ben nota agli abitanti dei vicini villaggi di Casso e Erto.
Nel 1959 la diga è ultimata; la giornalista bellunese Tina Merlin viene processata, e assolta, perché su “l’Unità” denuncia i pericoli del riempimento dell’invaso.
L’anno seguente, il 4 novembre 1960, una frana di 700 mila metri cubi precipita nel lago artificiale sollevando un’onda di dieci metri: ciononostante il progetto prosegue e la portata dell’impianto viene condotta alla massima capienza, tra presagi, segnali allarmanti di cedimento dei fianchi montuosi e dubbi crescenti.
Alle 22.39 del 9 ottobre 1963 una massa di 250 milioni di metri cubi di montagna precipita nel bacino idroelettrico. L’onda che ne scaturisce scavalca la diga, che regge, e si abbatte sulla sottostante valle del Piave, spazzando via interi paesi, primo fra tutti Longarone.
Ai soccorritori che accorrono nella notte si presenta un paesaggio lunare, disseminato per chilometri di centinaia di cadaveri, per una buona parte dei quali sarà impossibile l’identificazione.
Nei mesi e negli anni immediatamente successivi partono un processo penale, che sarà trasferito all’Aquila, una Commissione parlamentare d’inchiesta, e varie altre indagini.
La lunga vicenda giudiziaria verte attorno alla questione-cardine della prevedibilità del disastro. Contro tale ipotesi si schierano i giornali e grandi firme come il bellunese Dino Buzzatti e Giorgio Bocca, per i quali si era trattato di un disastro naturale. Dalla parte politica, invece, il “grande accusatore” è il Pci che viene accusato dalla Democrazia cristiana di sciacallaggio sulla tragedia.
La lunga vicenda penale si conclude con una condanna a cinque anni per il capo degli ingegneri della Sade, Alberico Biadene, e tre anni e otto mesi per Francesco Sensidoni, ispettore generale del Genio civile.
Il processo ha messo però in luce come lo Stato non avesse praticamente mai condotto indagini terze sulla sicurezza della diga, affidandole piuttosto ai consulenti di Sade, e come dalla stessa Sade erano state perfino condotte simulazioni con un plastico sui possibili effetti (sottostimati) della caduta di una frana. L’ingegner Mario Pancini, capo-cantiere della diga, si era tolto la vita prima del processo.
Tra gli anni ’60 e gli anni ’90 Longarone venne ricostruita e il ricordo delle vittime celebrato nel cimitero monumentale di Fortogna. Il 9 ottobre 1997 l’attore Marco Paolini recita su un palco costruito nei pressi della frana la sua “orazione civile”, cioè il testo teatrale “Il racconto del Vajont” tratto dalle memorie di Tina Merlin, “Sulla pelle viva” (Cierre edizioni): 3 milioni e mezzo di persone seguono su Rai2 la trasmissione e la tragedia torna nel discorso pubblico nazionale.
Nel 2001 il regista Renzo Martinelli gira il film “Vajont”, all’epoca il film italiano più costoso mai realizzato, che venne criticato per alcune semplificazioni ma che restituiva le contraddizioni e i drammi del disastro.
Nel 2003 viene fondata la Fondazione Vajont per lo studio dell’area della diga e la sua valorizzazione alternativa. Nel maggio 2023 l’archivio processuale del Vajont, trasferito da qualche anno a Belluno, è stato incluso nel progetto Unesco Memoria del mondo.
“Il Grande Vajont” di Maurizio Reberschak (I ed. 1983, Cierre) è stato il primo libro a ricostruire il grande progetto industriale che stava dietro alla diga e i passaggi che condussero al disastro: il testo è stato continuamente aggiornato.
“La tragedia del Vajont. Ecologia politica di un disastro”, dello storico dell’ambiente Marco Armiero, uscito in questi giorni (Einaudi), racconta cosa è stato il Vajont prima e dopo la notte del 9 ottobre 1963, una tragedia che è un capitolo ancora aperto della storia d’Italia.
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