«Dante? Un’autentica folgorazione grazie al professore del liceo»

Parla il giornalista udinese: «L’idea nasce col caso Scajola, poi lo scandalo Tulliani e ancora il Senatur. Il gioco diventa presto curioso: scelgo Andreotti come Virgilio e la materia prende forma da sola»

UDINE. Volendo, ti snocciola certi canti della Divina così, tirando dritto a memoria. Che poi uno pensa: ma quanto cavolo di tempo ci avrà impiegato? Mica è il Passero solitario. «Con naturalezza, senza mettersi lì a leggere e rileggere e a ripetere con gli occhi chiusi». Tommaso Cerno, udinese, spiega meglio: «Al liceo avevamo un prof con una voce pazzesca. Tullio Migotto. Fumava la pipa e leggeva Dante con una tale enfasi da tirarti dentro. Nulla a che vedere con gli attori di allora. C’era chi si dilettava, ricordate? No, lui aveva il modo suo, faceva vivere la situazione. E la coglievi al volo, senza perderti nei meandri. E mi sono innamorato della Divina Commedia». Al punto tale da riscriverla. Col piglio contemporaneo e «nel rispetto della metrica, della cadenza e dell’endecasillabo».

– Ah, la terzina...

«Il twitter del 1300. Un messaggio breve, di senso compiuto che ti consente di cogliere il significato di azioni passate e moderne. In un lampo. Stringi e dilati calendari, risali la storia, affianchi Colombo e Schettino, Craxi e Di Pietro, vivi e morti. Forse è più morto Di Pietro che Craxi».

– Geniale. Ma da un punto sarà ben partito, Cerno. Vorremmo conoscere il big bang, ecco.

«Scajola si dimette. E butto giù qualcosa. Puro passatempo. Scoppia lo scandalo Tulliani, poi l’addio di Bossi. E inizio a raccogliere. Scrivi oggi, scrivi domani, la risma aumenta di spessore e mi accorgo di quanto il gioco si faccia curioso. Scelgo Andreotti come Virgilio. Insomma, la materia si forma da sola».

– E le note? Un lavoraccio.

«Un lavoraccio di fino eppure divertente. Senza, il tutto avrebbe avuto il sapore di un esercizio stilistico. Ogni parola è giustificata e non subisce il vizio della rima».

– A tomo pronto che ha pensato?

«Mah, mi sono sentito più Alex Britti che Alfieri. Ho messo su una grande ballata da attento osservatore della politica».

– Dalla provincia alla metropoli. Quanto cambia il giornalismo?

«A diciott’anni mi presentai nella sede del Gazzettino con la richiesta sogno: mi fate collaborare? Macché. Allora buonanotte. Al Messaggero Veneto, invece, la porta si è aperta. E ho infilato il filotto classico: precariato, redazione, cronaca nera, palazzo, questioni regionali. Poi sbatto contro la Storia. Quella di Eluana. Me la ritrovo davanti e la accompagno fino all’ultimo respiro. Capisco cos’è il giornalismo: un magnifico racconto. Arrivo all’Espresso con questa gran voglia di raccontare qualcosa a qualcuno e scopro di quanto ideale sia il luogo. Qui sei tu e solo tu a mettere sulla bilancia la notizia, assegnando il peso giusto».

– In televisione come si sta?

«Un polo di comunicazione come altri. Mi hanno consegnato un microfono a proposito del caso Costa Crociere. Me ne sono occupato ed è arrivata la telefonata da via Mazzini. “Non è che ce ne parla davanti a una telecamera?”. A quel punto accetti. Un mondo nuovo da esplorare. Il terzo mancante, per me. Gli altri due, rete e giornali, posso dire di averli ormai ben che digeriti».

– Ancora troppe urla in tv. Non si decidono ad abbassare i toni.

«Il pubblico si sta seccando, mi creda. Ancora non troppo per disertare del tutto, ma vien sempre più voglia di ribaltare i canali appena il volume eccede. E se decenni fa la tivù rappresentava l’oracolo delle verità, ora la fiducia è assai scemata. Va così».

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