Delitti e sospetti: «Ecco l’identikit del mostro di Udine»

UDINE. Laureato in medicina. E più precisamente in ginecologia. Non ha mai esercitato. Perché non è mai diventato medico. È schizofrenico. E la famiglia lo sa. Ecco l’identikit del “mostro” di Udine. Un borghese. Sospettato e indagato. Ma il pm ritiene di non avere elementi sufficienti per un processo. E così tutto finisce nel nulla. Nel nulla esattamente come le indagini dei carabinieri del Ris di Parma sullo scialle che Marina Lepre indossa la tragica notte finita nel sangue a San Bernardo.
L’avvocato della famiglia della Lepre, Federica Tosel, quel nome – pur conoscendolo – decide di non pronunciarlo. «È morto. E con lui il reato si è estinto. Non avrebbe la possibilità di difendersi. Non posso fare il nome, perché poi quella persona verrebbe indicata come il mostro».
Tosel, figlia del magistrato che indagò all’epoca dei fatti sul killer di Udine, parla in sala Ajace all’interno del programma di iniziative “Passi avanti”, pensato dal Comune in occasione del 25 novembre, “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”. Parla dopo la presentazione del libro “Femmine un giorno”, edito nel 2013 da Bébert e scritto da Elena Commessatti.
Parla e introduce un parallelo. «Oggi ho il triste incarico di rappresentare in un processo penale la famiglia di una ragazza accoltellata mentre correva al Cormor», spiega Tosel, senza palesare il riferimento. Ma è chiaro. Sta parlando di Silvia Gobbato e del suo assassino, Nicola Garbino. «In quel caso - dice - l’assassino è uno schizofrenico. E in questo frangente si stanno facendo perizie sulla capacità di intendere e volere della persona. Una persona che non è stata curata, perché la mamma non voleva, perché chissà cosa avrebbe potuto dire la gente – incalza l’avvocato –. La sua non era una famiglia borghese: mamma casalinga e papà ferroviere. Ma la malattia è stata celata come fosse una vergogna. Esattamente come è successo al “mostro” di Udine».
La vicenda del mostro di Udine è tornata in auge proprio in questi giorni, con i risultati del Ris sullo scialle di Marina Lepre. «È andata come ci si aspettava che andasse – stigmatizza Tosel –. Marina Lepre non era una prostituta. La famiglia nega questa circostanza, tanto che il papà all’epoca diffidò i giornalisti da affiancare il nome di sua figlia a quello delle altre donne assassinate. Perché le altre sì, erano delle prostitute. Donne che per mestiere si vendono e si appartano, professionalmente vanno con chi non conoscono e con cui non hanno legami».
Il caso, insomma, era complicato. Tanto più, visto che la Lepre fu uccisa nel 1989 e l’utilizzo del Dna come prova fu introdotto soltanto nel 1993. «L’indagato, guarda caso, è un laureato in Ginecologia – ricorda Tosel –. Il pm incarica un medico legale, Carlo Moreschi, di analizzare i 15 omicidi irrisolti. E Moreschi individua un’unica possibile mano per quattro delle vittime: Maria Carla Bellone, Luana Gianporcaro, Aurelia Januschewitz e Marina Lepre. “E adesso cosa facciamo?”, si chiedono. La risposta è “niente”. Gli atti dell’epoca sono a carico di questo dottore, il cui procedimento però viene archiviato, perché in fase preliminare la Procura non ritiene di avere indizi sufficienti per sostenere l’accusa in giudizio. Oggi, però, la figlia di Marina non si arrende. E io con lei».
La serata, intitolata “Il caso mostro di Udine, tra finzione e verità” è stata coordinata dal Centro di Documentazione Casa delle Donne e moderata dal giornalista Paolo Medeossi.
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