Delitto Gobbato, svolta del pm: preso dal panico l'ha uccisa

La Dda di Trieste ha chiuso le indagini preliminari sul reo confesso Nicola Garbino. L’omicidio potrebbe essere stato la conseguenza del fallito sequestro di persona

UDINE. L’omicidio di Silvia Gobbato, la praticante legale uccisa il 17 settembre 2013 mentre faceva jogging lungo l’ippovia del Cormôr, potrebbe essere stato la tragica conseguenza del tentativo di sequestro di persona messo in atto da Nicola Garbino, 36 anni, di Zugliano, a scopo di estorsione. È quanto ha scritto il pm della Direzione distrettuale antimafia di Trieste, Federico Frezza, nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari fatto notificare in questi giorni all’indagato.

L’accusa rivolta a Garbino, quindi, non è più - o meglio, non soltanto - quella formulata nel capo d’imputazione originario dal pm di Udine, Marco Panzeri, titolare dell’inchiesta fino al recente trasferimento degli atti al collega triestino (la Dda è competente per il reato di sequestro di persona a scopo di estorsione).

L’immediata confessione del giovane e gli accertamenti delegati ai carabinieri del Nucleo investigativo di Udine, allora comandato ancora dal capitano Fabio Pasquariello, avevano convinto il magistrato a contestare all’assassino tre ipotesi di reato: l’omicidio, il tentato sequestro di persona a scopo di estorsione e il porto d’armi (cioè il coltello adoperato per colpire la ragazza).

E a ipotizzare un legame teleologico tra il tentativo di sequestro (che gli inquirenti avrebbero ritenuto comunque a sfondo sessuale e non economico) e l’omicidio. Vedendo fallire il piano di tenere la Gobbato sotto scacco, in altre parole, Garbino avrebbe cercato di garantirsi l’impunità facendola fuori.

Esaminate le carte, il pm Frezza ha scelto di affiancare all’iniziale ricostruzione accusatoria, in alternativa, quella del tentato sequestro di persona (articolo 630 del Codice penale), aggravato dall’omicidio (articolo 575).

Di unificare, cioè, in un’unica fase l’intera azione criminale, privilegiando il sequestro e assegnando all’omicidio la funzione dell’aggravante speciale. Quel giorno, quindi, Garbino avrebbe accoltellato la podista «per reagire a una situazione di panico inaspettata».

Tecnicismi a parte, a cambiare è l’interpretazione stessa data ai fatti. L’assorbimento di un reato nell’altro, inoltre, potrebbe incidere in maniera significativa sul computo della condanna (la pena prevista è l’ergastolo), qualora l’imputato chiedesse l’amissione al rito abbreviato (che garantisce lo sconto di un terzo della pena).

Sul punto, gli avvocati Manlio Bianchini, di Udine, ed Elisabetta Burla, di Trieste, codifensori di fiducia di Garbino, preferiscono non commentare. Nè hanno voluto anticipare la linea, ormai già chiara, che intendono seguire nel prosieguo del procedimento, a cominciare dai venti giochi a loro disposizione dalla notifica, per presentare memorie o documentazione relativa alle loro investigazioni.

Una cosa, comunque, è certa. Il capo d’imputazione introdotto in alternativa dal pm triestino risulta più aderente al racconto dei fatti che il loro cliente aveva reso fin dall’inizio.

Agli inquirenti, nell’interrogatorio seguito al suo arresto, due giorni dopo il delitto, Garbino aveva confessato di avere ammazzato la Gobbato, ma aveva anche spiegato di essere uscito di casa con un altro obiettivo: sequestrare una donna per chiedere un riscatto. In Silvia gli era parso di individuare la “preda” ideale: sola, esile e munita di un telefonino.

Rinchiuso da allora nella casa circondariale di via Spalato, il giovane riceverà a breve la visita dell’avvocato Bianchini. Facile immaginare che l’incontro sarà dominato dall’aggiornamento sull’inattesa svolta impressa all’inchiesta.

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