Demetrio e il ciclismo: olimpiadi sfiorate da atleta e poi giudice internazionale

PORDENONE. Demetrio Moras e l’infinita passione per il ciclismo. Prima dell’istituzione della Pordenone pedala, è stato corridore nella ciclistica Ottavio Bottecchia dal 1956 al 1962 e poi commissario di gara nazionale dal 1963 al 2008. Segretario generale di varie edizioni dei campionati del mondo uci e militari, è stato ispettore internazionale, ricevendo numerosi riconoscimenti in Italia e all'estero. Qui è lui stessi a raccontarsi in “Pedali e parole. 50 storie di ciclismo pordenonese”.
"Sono nato il 25, il 26 e anche il 27 gennaio 1938 in piazza a Villanova. Quel giorno si verificò la più grande aurora boreale del XX secolo: una premonizione per me che sarei diventato un grande appassionato di astronomia. Venni alla luce alle 23.40 del 25 gennaio, settimino e tutto nero per cui mi adagiarono in una scatola di scarpe. Dopo che la levatrice ebbe sistemato mia mamma, si accorsero che ero sprofondato nel cotone. Preoccupato che non sopravvivessi, mio padre mi fece subito battezzare per cui nel registro parrocchiale di Puja, al cui prete si era rivolto, venni iscritto il giorno 26. Per l'anagrafe comunale, invece, nacqui il 27 gennaio quando venni registrato in Comune. Ero attaccato alla comunità di Puja, dove risiedeva la mia nonna materna. La famiglia di mia madre, i Lucchetta, era molto sportiva: mio zio Raffaello era ciclista, lo zio Luigi disputò la Mille Miglia e lo zio Demetrio gareggiava in motocicletta.
La mia passione da giovane era il calcio: giocavo portiere nel Porcia, quindi terzino a Pordenone fra i "Gavagnin Boys". Lavoravo nella cartoleria di Bruno Sacilotto quando vennero a tesserarmi ma il padrone si oppose: "Vi do il doppio: Demetrio mi serve qui, in negozio". Con Cesarini allenatore, infatti, il Pordenone si allenava il pomeriggio, non essendo il Bottecchia ancora dotato dell'illuminazione artificiale. Allora dovetti smettere di giocare a calcio ma, nel frattempo, a furia di ammirare i grandi pistard che frequentavano regolarmente il velodromo cittadino, nei primi anni Cinquanta mi innamorai del ciclismo. Mi recai dal "Moro" Zanussi, meccanico e costruttore che aveva il negozio alla fine di corso Garibaldi, sopra il quale risiedeva la famosa Paola Bolognani, la campionessa del quiz "Lascia o raddoppia?", per chiedergli di costruirmi una bicicletta da pista. Alla prima riunione cui partecipai al velodromo cittadino vinsi tutte le qualificazioni dei tornei della velocità e dell'inseguimento individuale. Le finali si sarebbero tenute nel pomeriggio ma, nell'attesa, pensai bene di schiacciare un pisolino così mi ripresentai alle gare assonnato e persi entrambe le finali.
Ero veloce e andavo bene in salita ma soffrivo terribilmente sul passo. Scattavo sempre, un autentico "cuore pazzo", procedevo a scatti ma non mi piaceva tirare. Erano gli anni di Mino Bariviera, Vito Favero, Fiorenzo Tommasin, Giuseppe Vanzella, Antonio Dal Col e compagnia bella, perciò su strada non ho mai vinto. Contro quei campioni riuscii a vincere qualche volta solamente in pista.
Fu un tragico incidente a costringermi a smettere. A Codroipo, in provincia di Udine, mi trovavo in fuga solitaria alla Coppa Fratelli Paravano. Mentre percorrevo un tratto di statale venni investito da un'automobile francese che si inserì incautamente. Prevenendo l'impatto e avendo già svolto il servizio militare da paracadutista, mi raggomitolai salvandomi la vita. Venni comunque colpito. Ruzzolai per decine di metri, riportando su tutto il corpo escoriazioni che mi hanno causato cicatrici permanenti. Addio campionati italiani, che si sarebbero tenuti la settimana dopo, e addio speranze di partecipare alle Olimpiadi di Roma per le quali ero considerato papabile. La Ceat, società ciclistica di Torino nella quale correva anche Ibrioli da Cusano di Zoppola, mi propose un contratto da 80 mila lire al mese ma alla cartolibreria Ellero, presso la quale ero diventato direttore, ne percepivo 100 mila, quindi non accettai.
Quando non portavo a termine la corsa, i giudici mi chiedevano di dare loro una mano, collaborando sul palco alla stesura dell'ordine d'arrivo. Dai una volta e dai un'altra, nel 1961 mi sono ritrovato giudice di gara regionale. Non avendo il comitato del Friuli Venezia Giulia stabilito la graduatoria di merito invocata dalla Federciclismo, dovetti rimanere tale per quattro anni. Per meriti, ancora una volta senza passare attraverso corsi ed esami, nel 1965 avanzai di grado, diventando giudice nazionale. Successivamente divenni ispettore internazionale, togliendomi numerose soddisfazioni.
La più grande fu di diventare presidente di giuria in gare internazionali come la Coppa d'oro per dilettanti a Varese oppure il Giro di Toscana e alle tappe pordenonesi del Giro d'Italia per professionisti. Sono stato pure giudice unico degli stayer e segretario a sei edizioni della Sei Giorni di Milano. In una di queste occasioni, al palazzetto dello sport, ho espulso il campione del mondo Domenico De Lillo che aveva commesso una scorrettezza. Scoppiò il putiferio, in pista e sugli spalti, con proteste vibranti perché avevo eliminato una delle stelle della competizione. A un certo punto ho dovuto telefonare a casa a mia moglie Paola Viati: "Non so quando torno perché mi stanno dando la caccia". In realtà ero molto preciso e imparziale. Sono convinto di essere stato un buon maestro, specialmente in pista, per molti degli attuali giudici internazionali.
Durante una delle ultime edizioni del Trofeo dell'Emigrante, circuito per allievi che la ciclistica Ottavio Bottecchia organizzava a San Martino di Campagna, interruppi la gara mentre transitava sotto lo striscione d'arrivo. I corridori, infatti, stavano andando a passeggio. Il regolamento parla chiaro: bisogna correre al massimo delle possibilità. Quindi ho avvertito tutti: "O correte sul serio o vi mando tutti a casa". Ho sempre rispettato il pubblico, mantenendo una condotta "cattiva" sì, ma riguardosa. Un'altra volta, al velodromo di Forlì, declassai un pistard sovietico che aveva vinto il torneo della velocità. Il tecnico del sovietico mi regalò un distintivo russo per ringraziarmi della decisione presa. Voglio sottolineare che fra i tanti riconoscimenti ricevuti, compresi i premi Gorla e Rimedio, ne ho ricevuti dalla Francia, la Gran Bretagna e l'Urss".
Nel 1972 organizzavo un torneo di calcio cui partecipavano la squadre della Safop, la Savio, la Zanussi, le forze dell'ordine; allenavo l'undici dei Carabinieri. In quella circostanza alcuni amici mi esortarono a organizzare una pedalata a Pordenone ma ero dubbioso. Il 14 marzo 1973, invece, lessi sulla "Gazzetta dello Sport" che l'amico Antonio Maspes avrebbe organizzato la Milano Pedala. Allora, dopo avere consultato le stelle, la luna e il calendario scolastico, mi convinsi a provarci. Alla prima edizione, disputata il 9 settembre 1973, parteciparono 1270 persone. A metà degli anni Settanta fissai in 5 mila il limite massimo degli iscritti, una cifra di tutto rispetto che ci permise e ci permette ancora di organizzare una cicloturistica prestigiosa, soddisfacente e in totale sicurezza. Comprendemmo il successo della Pordenone Pedala quando cominciarono a interessarsi di noi le televisioni estere. Ricordo i complimenti della troupe di Belgrado che si era meravigliata che alla cicloturistica partecipasse l'equivalente del 10% della popolazione di Pordenone. Oggi possiamo dire che la Pordenone Pedala gode di una popolarità veramente internazionale".
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