Demetrio Moras, l’occhio di falco caro ai campioni

Pordenone, il ricordo. Prima ciclista, poi giudice di gara, ottenne fama internazionale

PORDENONE. Lo chiamavano con ammirazione “Occhio di falco”, tanta era la sua precisione. Demetrio Moras è stato uno dei giudici di gara più stimati della Federciclismo, in modo particolare per il settore pista. Proprio grazie alla pista, del resto, il giovane garzone della cartoleria di Bruno Sacilotto si innamorò del ciclismo.

Incassato il definitivo no da parte del suo datore di lavoro, che non intendeva mandarlo ad allenarsi con il Pordenone durante l’orario di lavoro (l’Ottavio Bottecchia al tempo non godeva dell’illuminazione artificiale pertanto i neroverdi di mister Cesarini dovevano allenarsi di pomeriggio), Demetrio riparò sul ciclismo.

Esaltato dalle prestazioni dei grandi assi del tempo, che ogni anno l’8 settembre facevano riempire gli spalti (nel 1953 si esibirono addirittura il fresco campione del mondo Fausto Coppi e l’anziano Gino Bartali), Moras si fece costruire la prima bicicletta da corsa da Dal “Moro” Zanussi, meccanico e costruttore che, alla fine di corso Garibaldi, aveva il negozio sopra il quale risiedeva la famosa Paola Bolognani, la campionessa del quiz “Lascia o raddoppia?”.

Non un fuoriclasse Demetrio ma uno di quei corridori tenaci che non mollavano mai. Fu un incidente a farlo smettere.

«A Codroipo mi trovavo in fuga solitaria alla Coppa Fratelli Paravano – raccontò in un’occasione -. Mentre percorrevo un tratto di statale venni investito da un’automobile francese che si inserì incautamente. Prevenendo l’impatto e avendo già svolto il servizio militare da paracadutista, mi raggomitolai salvandomi la vita. Venni comunque colpito. Ruzzolai per decine di metri, riportando su tutto il corpo escoriazioni che mi hanno causato cicatrici permanenti. Addio campionati italiani, che si sarebbero tenuti la settimana dopo, e addio speranze di partecipare alle Olimpiadi di Roma per le quali ero considerato papabile. La Ceat, società ciclistica di Torino nella quale correva anche il fiumano Agostino Ibrioli, mi propose un contratto da 80 mila lire al mese ma alla cartolibreria Ellero, presso la quale ero diventato direttore, ne percepivo 100 mila, quindi non accettai».

La vacanza dal ciclismo durò poco. Nel 1961 iniziò la carriera di giudice di gara, con applausi e premi anche da Francia, Gran Bretagna e Urss.

Una volta però, proprio a Milano, alla cosiddetta “università della pista” rischiò la pelle.

«Alla Sei Giorni espelletti il campione del mondo Domenico De Lillo per scorrettezze – riferì -. Scoppiò il putiferio, in pista e sugli spalti, con proteste vibranti perché avevo eliminato una delle stelle della competizione. A un certo punto dovetti telefonare a casa a mia moglie Paola Viati: Non so quando torno perché mi stanno dando la caccia».

Ma tornò. E continuò al meglio il suo lavoro.

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