Dentro la città fantasma cacciati dalla zona rossa

L’Aquila dimenticata e lasciata come sei anni fa, ancora con la pasta sui tavoli. «Si respira odore di calcinacci, polvere, aria di morte, incuria e abbandono»

Sono riusciti a entrare nella “zona rossa” della città, il centro storico, la “vera” L’Aquila, e non quella che ospita l’adunata degli alpini, più sotto, “chiamati” in centro-Italia per «riportare il sorriso agli abruzzesi». Sono riusciti a entrare, a percorrere qualche strada deserta tra calcinacci, case rimaste aperte, vetri rotti, armadi con i vestiti ancora all’interno, sacchetti di pasta sulla tavola, riviste a terra, nei salotti. Era L’Aquila che viveva, è L’Aquila nascosta, quella morta nel 2009. Sono riusciti a entrare e a rimanervi per poco, sino a quando la sicurezza ha scoperto quei “varchi” abusivamente forzati l’altro ieri da ignoti e poi trasformatisi in una diga rotta, attraverso la quale, per alcune ore, è passato di tutto.

Sino a quando la Protezione civile ha passato al setaccio vicoli e strade sino alle uscite, che sono tornate impenetrabili, transennate. «Adesso sì che capiamo perché il presidente Matteo Renzi quest’anno non ci sarà all’adunata: diversamente da Pordenone gli applausi non sarebbero scontati», si lasciano sfuggire alcuni aquilani che invitano a mostrare, a fotografare, a raccontare quel che c’è dentro la “zona rossa”.

«Una città fantasma», raccontano all’uscita la consigliere regionale Renata Bagatin – che oggi alla sfilata salirà in tribuna delegata da Debora Serracchiani – e Monica Pase, esponente dello stesso partito, il Pd. Prima, era stato un altro gruppetto di pordenonesi a entrare: «Qui non è successo nulla, altro che ricostruzione del Friuli. Alla casa dello studente dalle finestre si vedono ancora gli armadi rimasti aperti con i vestiti all’interno», racconta Simone Marchesan, del gruppo Ana di Brugnera. «Si respira odore di calcinacci, di polvere sollevata dal vento, di morte, incuria e abbandono». Quando tenta di tornare, trova le vie sbarrate.

Gigi Benedetti, di Polcenigo, con Dosolina e Laura Bortolin, riesce a percorrere diverse centinaia di metri, dentro la città fantasma, dalla quale solo in lontananza si sentono i canti degli alpini e il brusio della folla. «È rimasto tutto com’era quel giorno – racconta Bortolin –. Ci sono gli armadi con le ante aperte, gli asciugamani nei bagni, la pasta sulle tavole, le riviste a terra. È una città fantasma: speriamo che le maestranze possano dare speranza a chi se la merita, ma che è rimasto povero come allora».

Sono passati sei anni, dal terremoto, «e non pensavamo di vedere queste cose. Dopo tanti anni non hanno toccato nulla: i bambini restano a casa perché neppure l’asilo hanno ricostruito». Il tempo di raccontare ed è già fuori.

L’adunata serve anche per smuovere le coscienze. «Per far capire che la città è importante, così come è necessario ricostruirla alla svelta». Case e negozi abbandonati, «la lacca della parrucchiera è rimasta accanto al lavello, aperta: perché? Perché nessuno è tornato almeno a riprendersi queste cose? Perché a Gemona queste cose non sono successe? Perché non hanno atteso aiuti, si sono tirati su le maniche. È una questione di orgoglio».

Il centro è un disastro, allarga le braccia il vicepresidente della sezione Ana di Pordenone Aldo Del Bianco, responsabile della sezione Lavori: «Speravo di trovare interventi conclusi, hanno ragione i cittadini di protestare. A Fossa, dove abbiamo realizzato 33 case, ci hanno accolti da fratelli: ci hanno invitato a entrare, a vedere come sono tenute, davvero bene. L’ex sindaco ci ha accolti con le lacrime agli occhi… Ecco, ho detto ex: con lui avevamo fatto un villaggio, ma l’elettorato non l’ha premiato».

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