Disoccupati o inattivi: la condanna dei giovani

UDINE. Michele se nè andato il 31 gennaio a trent’anni. Ha scelto di togliersi la vita perchè frustrato dalla lunga, e vana, ricerca di un lavoro.
Un «ragazzo della generazione perduta che ha vissuto come sconfitta personale quella che per noi è invece la sconfitta di una società moribonda, che divora i suoi figli», scrivono di lui i suoi genitori, che hanno affidato al Messaggero Veneto il compito di pubblicare la lettera di addio di Michele che è, davvero, anche una lettera di denuncia. Una denuncia nei confronti di chi promette sogni salvo poi non consentire si realizzino. Come il lavoro.
Anche a Nordest la disoccupazione giovanile è un problema. Così come sono i Neet, acronimo di termini inglesi che significano giovani che non studiano e non lavorano. Gli sfiduciati, potremmo dire. Quelli che hanno lasciato la scuola perché hanno completato il percorso scelto, si sono indirizzati verso il mondo del lavoro ma lo hanno trovato chiuso.
E continua ad esserlo per due giovani su 10 a Nordest. Nel terzo trimestre 2016, ultimo dato disponibile, la disoccupazione giovanile 15-24 anni in Italia si è attestata al 34,5% medio, più alto per le ragazze, 37,6, un po’ più basso per i ragazzi, 32,3. Cifre che scendono a Nordest con un tasso medio del 19,1%, composto dal 16,3 maschile e dal 23% femminile.
Se allarghiamo lo sguardo alla fascia 15-29 anni, i dati migliorano ma di poco. Il tasso di disoccupazione nazionale è del 26,7%, che scende al 14,8% a Nordest, prodotto della media dell’11,7% dei maschi e del 18,9% delle femmine.
Per quel che riguarda il Friuli Venezia Giulia, gli ultimi dati disponibili risalgono all’anno 2015 quando il tasso di disoccupazione tra i 15 e i 24 anni era del 28,7% (27,4 per i maschi, 30,4 per le femmine); tra i 15 e i 29 anni il dato medio era del 21,5%, a fronte di un tasso di disoccupazione generale dell’8,1%.
Tanto per dare un’idea di quanto la crisi abbia impattato soprattutto sui giovani, il tasso di disoccupazione 15-29 anni nel 2007, ovvero dieci anni fa, a Nordest, era del 6,5%, contro un tasso di disoccupazione medio 15-64 anni del 3,2%.
E che fanno molti giovani di fronte alle porte sbarrate del lavoro? Se ne vanno. Fanno la valigia ed emigrano. E anche in questo fenomeno - che è triste se determinato dall’insufficienza di alternative - il Friuli Venezia Giulia conquista il suo primato di regione in cui il tasso di fuga, in rapporto alla popolazione, è tra i più alti d’Italia.
Nel 2015 da questa regione hanno preso valigia e passaporto e se ne sono andati in 4.130. Nel 2014 c’era stato il boom con 4.831 espatri certificati dall’iscrizione all’Aire, l’Associazione degli italiani residenti all’estero. Nel 2013 avevano fatto la stessa scelta in 3.646. Facendo un rapido conteggio, dunque, tra il 2013 e il 2015 hanno lasciato affetti e familiari in cerca di fortuna ben 12.607 uomini e donne, vale a dire l’1% della popolazione. E’ come se in questo arco di tempo avessimo perduto un paese grande quanto Fontanafredda o Spilimbergo.
E i dati sull’emigrazione made in Friuli sono sottostimati, in quanto una percentuale di chi decide di tagliare i ponti, provvisoriamente o per sempre, con la madrepatria, per un motivo o per l’altro non si iscrive all’Aire.
Dalla nostra regione sono partiti nel 2015 in 4.130. Un numero che da solo non significa moltissimo, ma se rapportato alla popolazione complessiva (1,2 milioni di residenti) fa balzare il Fvg tra le regioni con la maggiore incidenza di espatriati.
Basti pensare che dal Veneto, che conta quasi 5 milioni di abitanti, se ne sono andati in 10.374, poco più del doppio dei friulani, ma con una popolazione quattro volte più grande. Stesso discorso vale per la Lombardia: 20.088 partenze, ma una popolazione di 10,1 milioni di abitanti. Insomma l’incidenza degli emigrati friulani sui residenti è tra le più alte d’Italia.
Altra considerazione: in termini assoluti abbiamo molti più espatri rispetto a regioni più popolose come Liguria, Marche, Abruzzo, Sardegna e un numero di poco inferiore a quello della Calabria.
Come dicevamo prima, andare all’estero non è di per sè una scelta negativa, anzi. Optare per un periodo di studio, per un master, per un’esperienza lavorativa, sono esperienze che arricchiscono. Diventa un problema su cui riflettere se uno se ne va perché qui non ha chance. La “fuga dei cervelli” è stata definita, e spesso accompagnata da ambiziose dichiarazioni di volontà di riportare questi “cervelli” a casa. Programmi che solo a volte diventano progetti e quando accade, hanno risultati deludenti.
E così si sentono riecheggiare le parole di una vecchia poesia che bene ha raccontato la Carnia, e il Friuli, d’un tempo, quando tanti se ne sono andati perché «libers... di scuign'i lâ».
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