Dopo Chernobyl e la Colombia di Escobar sarà Wuhan la prossima tappa del dark tourism
ROMA. In cima a una collina di Medellin c’è la prigione a cinque stelle di Pablo Escobar. La costruì lui stesso, e nel 1991 ci si rinchiuse dentro per evitare di essere estradato. La Catedral aveva un campo di calcio, bar, jacuzzi, palestra e una piattaforma d’atterraggio per gli elicotteri. Era il segno della forza di Escobar, un uomo così potente da imporre al governo colombiano i termini della propria incarcerazione. Trent’anni dopo, Daniela, una studentessa di architettura di Medellin, sta risalendo l’altura con un gruppo di ragazzi newyorkesi. Oggi in rovina, la Catedral, anche grazie a Narcos, la serie Netflix sui cartelli della droga, è diventata una pietra miliare di una certa cultura pop. Organizzare visite nei luoghi dove ha agito Pablo, il re dei trafficanti, è un business redditizio. Lo si potrebbe definire “narcoturismo”. Cioè una nicchia di un universo più grande a cui negli anni è stato dato il nome di “Dark Tourism”, ovvero il turismo del macabro, degli orrori, delle catastrofi, della guerra, della violenza.
Esiste tutto un circuito per chi ama queste cose, con livelli crescenti di stranezza, anarchia e pericolo. È piuttosto comune, in Cambogia, recarsi al museo del genocidio. Ma per immergersi meglio nel caos degli anni di Pol Pot, il turista del macabro si fa portare in un poligono improvvisato dove spara con le armi dei Khmer rossi; e pagando abbastanza soldi colpisce bersagli mobili e vivi: polli, di solito. D’estate il turista del macabro non metterà mai piede in un posto come Ibiza, votato al semplice edonismo. Frequenta piuttosto le spiagge del Benin, in Africa occidentale, perché lì ogni anno c’è il più grande festival di vudù al mondo. La vena esoterica poi potrebbe condurlo nei bassifondi di Città del Messico; per mischiarsi a una processione di adoratori del demone della Santa Muerte. In Giappone, invece, si spingerà nella “zona di difficile ritorno”, l’area vicino a Fukushima: città dopo città abbandonate, spettrali, radioattive.
Ma per chi insegue il filone dei disastri la balena bianca è sicuramente Chernobyl. Nella “zona di alienazione”, come la definiscono i cartelli prima della sbarra d’ingresso, entrano ogni anno 50mila turisti. Pullman su pullman da Kiev che si inoltrano nel paesaggio contaminato, fino a Pripyat, la città dei lavoratori della centrale. Prima dell’incidente ci vivevano in 50mila, sono scappati via tutti. La cittadina è pericolante e insieme stranamente intatta. Ed è tutta molto fotografata: la scuola, la piscina, l’ospedale, la Casa del Popolo e la grande ruota panoramica che sbuca dagli alberi. Tornando sul bus magari qualcuno finisce per farsela questa domanda: che cos’è diventato questo posto? Un parco giochi morboso o un giusto monumento sugli effetti di una catastrofe? Di sicuro è la meta più succulenta del turismo macabro. Fino a qualche anno fa i visitatori erano 10mila. Poi i numeri sono lievitati grazie al passaparola, alle campagne marketing e al successo della serie Hbo, Chernobyl, uscita l’anno scorso.
Ma se l’eco mediatica e la portata del disastro sono indizi di una nuova moda, allora Chernobyl avrà presto una rivale temibile. Pensateci bene. Una delle peggiori catastrofi che si ricordino a memoria d’uomo è partita da una città cinese nella provincia di Hubei. Che sia vero oppure no, questa è la sequenza di eventi piantata nella coscienza collettiva: i casi iniziali di coronavirus vengono dal mercato del pesce di Wuhan, è lì che si è infettata la prima vittima, un uomo di 61 anni deceduto l’11 gennaio. Gli ingredienti del dark tourism ci sono tutti, anche perché i mercati di animali selvatici ormai sono percepiti come luoghi rischiosi, dove in agguato ci sono malattie d’ogni tipo. E il turista del macabro è attratto dal pericolo. Per questo accademici ed esperti di cultura del turismo sono pronti a mettere Wuhan in cima alla lista, immaginando frotte di pellegrini che minuziosamente ripercorrono, e fotografano (postando tutto su Instagram e Facebook), lo sviluppo della pandemia.
Dal mercato, ai primi edifici contagiati, agli ospedali e così via… E tutto questo sarà amplificato quando il coronavirus diventerà il soggetto di film e serie tv di successo. “I social media hanno dato una spinta enorme al turismo del macabro. Questi viaggiatori vogliono fare cose insolite, lanciare mode bizzarre, visitare posti poco frequentati, inquietanti, rischiosi, oppure andare nei luoghi di un disastro, e tra questi c’è sicuramente Wuhan”, ha commentato poco tempo fa Andreas Papatheodorou, professore di scienze del turismo all’Università dell’Egeo. La pensa più o meno allo stesso modo anche Donna Chambers, professoressa di antropologia del turismo all’università di Sunderland in Inghilterra. “Il mondo mostrerà un nuovo interesse per Wuhan: tante persone fuori dalla Cina non l’avevano mai sentita nominare, quindi le visite non possono che crescere”.
C’è da dire che al momento i turisti sono soprattutto cinesi. E non c’entra nulla il fascino della catastrofe. Le agenzie locali dicono che c’è voglia di visitarla per un senso patriottico di unità nazionale. Andar lì significa sostenere l’economia di quella città coraggiosa e rendere omaggio ai suoi lunghi mesi di quarantena. Wuhan, in ogni caso, non porta in dote solo la reputazione tragica di essere l’origine di una pandemia. È una città con una storia notevole. Ex capitale cinese, è stata il luogo di partenza della rivolta del 1911 che pose fine all’ultima dinastia imperiale, sancendo l’inizio della repubblica. Oggi offre una visione tipica della Cina moderna, grattacieli, strade sopraelevate e tutti gli strumenti di un potere crescente. L’edificio più famoso è una pagoda alta 51 metri, che risale a 1800 anni fa, e l’intento degli architetti era farla somigliare a cinque ali di gru appoggiate delicatamente una sull’altra. Perché anche il turista del macabro ha bisogno di un po' di pace.
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