Dopo le Comunali, la strategia del no che deve farsi programma politico
UDINE. Il centrodestra ha portato a casa l’intera posta in gioco. Domenica ha vinto anche a Monfalcone e Codroipo; quindici giorni prima, a Ronchi dei Legionari; a giugno a Trieste, Pordenone e Cordenons.
In pratica, ha conquistato i Comuni più importanti del Fvg, superando il tabù rappresentato dal voto amministrativo. Se prendiamo in considerazione gli undici municipi con più di 15 mila abitanti, cioè quelli che prevedono il ballottaggio, constatiamo che al centrosinistra ne sono rimasti quattro: Udine (che va in scadenza nel 2018), Porcia, Azzano Decimo e San Vito al Tagliamento.
Un ribaltone, segno evidente che il vento ha cambiato direzione. Il partito dei sindaci non c’è più. Il Pd perde così i riferimenti con i territori, mettendo in crisi sia i meccanismi di selezione della classe dirigente sia la natura stessa di partito tradizionale. Una strategia ristretta, come quella praticata, alimenta l’assenteismo a sinistra senza pescare nulla a destra.
Picconate anti-sistema
Chi ha responsabilità di governo è sempre più esposto all’insofferenza dell’elettorato. Ormai ogni occasione è buona per scaricare le tensioni sul potere, senza più distinzioni tra centro e periferia, o tra un tipo di voto e l’altro. È la rivolta contro l’establishment, che non ha più confini: è forte la voglia di impallinare chiunque senza porsi tanti perché: «Mandiamoli a casa e basta».
La politica semplifica e personalizza ogni scontro. Nel calderone che determina le scelte entra di tutto: l’economia che non si schioda da una crescita dello zero-virgola, nonostante le promesse; l’appesantimento delle disuguaglianze sociali, che semina rancori; il fenomeno dei profughi, gestito senza strategie di accoglienza, che alimenta paure; la rabbia verso tutto ciò che odora di politica.
Chi sfrutta il vento dell’insofferenza? In Fvg non ci sono dubbi: il centrodestra intercetta con maggiore capacità rispetto al M5s la sfiducia dei cittadini. I grillini, anche in queste ultime elezioni, hanno ottenuto la rappresentanza nei Consigli comunali, ma non hanno sfondato, perché il voto comunale è diverso da quello nazionale.
Ovunque sono sotto la soglia del 20%. Da noi servono un maggiore radicamento nei territori e candidati più “visibili”: la capacità di gestire i social network è necessaria, ma non sufficiente.
La carta vincente
Il centrodestra, accanto alle critiche nei confronti di chi governa, ha potuto giocare l’asso dell'usato sicuro: a giugno, Roberto Dipiazza a Trieste e Alessandro Ciriani a Pordenone; oggi, Anna Maria Cisint (che per cinque anni ha guidato l’opposizione) a Monfalcone e Fabio Marchetti (sindaco uscente) a Codroipo.
Non serve cioè che i candidati siano nuovi di zecca, purché dimostrino una sufficiente autonomia dai partiti. Non paga neanche la rottamazione più spinta, perché spesso è il risultato di imbarazzanti guerre intestine. Anche l’esito del voto di domenica scorsa conferma che in Fvg c’è ampio spazio per il centrodestra, purché si presenti unito.
E, in effetti, l’alleanza ha saputo pescare, senza distinzioni, dentro i tanti “no” dell’elettorato. Questo meccanismo di estrema semplificazione dimostra di pagare nella raccolta dei voti, ma non garantisce un’azione efficiente di governo.
Nonostante le vittorie, mancano ancora i fondamentali di uno schieramento coeso per l’assalto alla Regione. Nella cassetta degli attrezzi, bisogna metterci un buon cacciavite per assemblare un progetto moderato e una leadership affidabile. Per il momento, il centrodestra procede attraverso una sommatoria di negazioni.
Prospettive regionali
La vittoria amministrativa è però un buon viatico in vista del referendum costituzionale, i cui esiti ci traghetteranno in un “altro mondo”. La vittoria del “sì” rafforzerebbe la giunta Serracchiani; la vittoria del “no” sconquasserebbe definitivamente il centrosinistra, aprendo una stagione cruenta al regolamento dei conti.
Sull’altro versante, se i “no” dovessero prevalere, prenderebbe consistenza la riscossa del centrodestra, il quale potrebbe anche sfruttare i rapporti di collaborazione che si sono intrecciati con il movimento autonomista. Infatti, in Fvg, il “fronte del no” ha messo assieme anche coloro che temono che la riforma dia una forte spallata alla Specialità regionale (per la verità, tutta da dimostrare).
In realtà, in chiave 2018 si ravvisa la necessità di un nuovo lessico politico che rafforzi l’identità del centrodestra. Uno schieramento politico che si fa paladino delle autonomie dovrebbe essere in grado di sperimentare soluzioni-pilota. Per esempio, come potrà sciogliere i nodi più ingarbugliati che hanno messo in difficoltà il Pd?
Un fenomeno epocale come quello dei profughi non può essere risolto con tanti “no”, ma con il rispetto dei principi di dignità umana dentro i parametri delle quote assegnate.
Sulla riforma degli enti locali, il centrodestra dovrà abbandonare la via giudiziaria contro le Uti, per dire due, tre cose concrete in grado di ricreare un tessuto di coesione con i sindaci, i quali sono i diretti interessati: come superare l’esperienza delle Province e come limitare l’eccessiva polverizzazione dei Comuni?
Non si può pretendere di governare con la nostalgia dei tempi passati. Lo stesso ragionamento vale per la partecipazione delle amministrazioni nelle scelte di riordino della sanità. E che cosa dire di società partecipate affollate e costose?
C’è l’impegno ad accorciare la catena di comando? La riorganizzazione del sistema potrebbe liberare risorse importanti per lo sviluppo.
Con quali candidati?
I cacciatori di teste sono al lavoro in entrambi gli schieramenti. Ovviamente, le scelte saranno condizionate dall’esito referendario. Quale sarà lo stato di salute del Pd? Se il partito dovesse uscire malconcio anche dall’appuntamento del 4 dicembre, si raffredderebbero molte ambizioni.
Debora Serracchiani non fa mistero di pensare al Parlamento, mentre il suo vice, Sergio Bolzonello, è già dentro il tritacarne delle candidature. Si sta muovendo con molta autonomia, defilandosi dagli appuntamenti che hanno un forte marchio di fabbrica: non si è fatto vedere alla Leopolda e sta mantenendo un profilo basso nella campagna referendaria.
Preferisce i contatti con i territori, quelli che Pierluigi Bersani ha chiamato «carne della nostra carne», riferendosi alla sconfitta clamorosa di Monfalcone, terra di fabbriche e di operai. Gira e rigira per i comuni, incontra le categorie economiche e le associazioni.
Lui è in campo: chi altro avrà il coraggio di affrontare una gara tutta in salita? Nel centrodestra rimane un dilemma: un’alleanza a trazione leghista o moderata? Non è una scelta secondaria.
Lo schema di gioco ha già dei nomi: Massimiliano Fedriga nel primo caso, che però non fa nulla per nascondere di preferire la conferma alla Camera; Riccardo Riccardi nel secondo caso, anche perché le sue quotazioni sono in rialzo, dopo il successo di Codroipo, che è un po’ il suo feudo.
La rosa ha però altri petali: non manca quello del redivivo Renzo Tondo, anche se il suo nome è un po’ troppo legato alle sconfitte del passato, come non mancano quelli di altri outsider legati al mondo produttivo (per esempio, si fa insistente l’indicazione dell’imprenditore Sergio Bini).
Scelte non semplici, perché il centrodestra ha il vizietto di aggrapparsi un po’ troppo alle giacchette di Silvio Berlusconi e di Matteo Salvini. E di farsi del male. Le ingerenze romane e milanesi hanno lasciato il segno. In questo caso salterebbe la delicata trattativa con gli autonomisti, ai quali i “Visitors” di non lontana memoria fanno venire l’orticaria.
Per quanto riguarda il terzo polo, c’è da aggiungere che il M5s si muove su canali di selezione diversi da quelli tradizionali. Probabilmente, ci saranno le Regionarie e dal web potrebbe uscire di tutto, forse un Carneade qualsiasi, com’è già successo.
L’esito referendario sarà decisivo per l’apertura di nuovi scenari, soprattutto se dovessero prevalere i “no”. A quel punto comincerà il vero gioco delle carte.
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