È morto Mario Benedetti, voce preziosa della poesia friulana: per anni ha combattuto una feroce malattia autoimmune

MILANO. “Il cielo gira verso Cividale, gira la bella luce/ sulle manine che avevamo, che è stata la vita essere vivi così”.
Finisce con questi due versi la poesia che apre Borgo con locanda, uno dei libretti di quella edizione quasi clandestina che, con il nome di La barca di Babele, aveva riunito per alcuni anni la nuova poesia del Friuli Venezia Giulia. Intorno a Pierluigi Capello e Ida Vallerugo, che diedero impulso al progetto, ci unimmo in molti, con Alberto Garlini, Amedeo Giacomini, Luigi Bressan, Ivan Crico tra i più attenti. Eravamo tutti convinti, in quell’anno 2000, svolta del millennio, oltre che del secolo, che Mario Benedetti era il nuovo “acquisto” più soprendente.
E gli anni successivi lo confermarono: nel 2004 uscì da Mondadori nello “Specchio” un’opera destinata a diventare un punto di riferimento per il panorama poetico nazionale, Umana gloria, seguita nella stessa collana da Pitture nere su carta (2008) e Tersa morte (2013). Nel 2017 vengono raccolte in un volume intitolato Tutte le poesie (negli “Elefanti” dell’editore Garzanti).
Perché nel 2017, quando Mario Benedetti ha 62 anni, esce un volume che raccoglie “tutte” le sue poesie? Perché da qualche hanno Benedetti si trova ospite di una residenza dove passa la sua vita in una condizione di lontananza da tutto e forse (non si sa fino a che punto) anche da se stesso. Non scrive e non scriverà più, questo è certo. Vive ancora, ma irraggiungibile, in una straziante lontananza dalla quale arrivano talvolta stupore, tenerezza, rabbia, ma non più la reciprocità di un contatto che si possa dire di intesa. Aveva combattuto una feroce malattia autoimmune, resisteva in quella condizione di inattingibilità, e venerdì mattina, dopo tre settimane di lotta, ha dovuto cedere.
Il coronavirus l’ha sconfitto. Insieme a lui, in quella residenza di Piadena dove era ricoverato, sono morte altre venti persone. Siamo tutti chiusi in casa, ci sentiamo minacciati, lo diciamo continuamente, e condividiamo la speranza che questo incubo finisca presto. E poi ci sono le persone che lavorano per noi, che rischiano la vita, anche questo lo sappiamo e a loro va la nostra riconoscenza.
Mario Bendetti, che ha lottato con la morte per un decennio, va ricordato e onorato con tutti loro. E per tutti loro, per tutti noi, le parole di un grande poeta sono qualcosa che ci chiama a una comunanza: Mario Benedetti aveva saputo legare insieme il passato e il presente della sua terra con tutti i “qui” e gli “altrove” che la vita del nostro tempo ci costringe a tenere insieme. Nelle sue poesie un’originale sintassi, unita a una scansione del verso sempre sul limite tra parlato e accensione lirica, riesce a legare insieme tempi e luoghi diversi della vita, i momenti unici dell’esistenza con la cronaca dei giorni.
Possiamo dire chi era Mario Bendetti in questo modo: era nato nel 1955 a Udine, per l’anagrafe, ma era di Nimis, dove è vissuto con continuità fino a quando inizia gli studi a Padova, dove si laurea e in seguito decide di abitare. Prima fa l’insegnante a Padova e poi a Milano, dove si traferisce alla fine degli anni ’90. Negli anni successivi una particolare forma di sclerosi multipla, che lo accompagna dall'infanzia, si presenta in forma grave, in particolare nel ’99 e nel 2000. Dopo l’ictus, avvenuto nel 2014, vive ospite di strutture sanitarie, prima a Milano, poi a Piadena, dove muore venerdì mattina.
Com’è bugiardo questo resoconto, nella sua cruda sostanza di eventi! Sono i più importanti, certo: nasce, studia, lavora, si ammala, muore. Valgono per tutti, e allo stesso tempo in se stessi non hanno valore per nessuno. Perché prendono valore dalla vita, che è fatta della realtà che ogni giorno affrontiamo e dobbiamo ricreare con le parole, gli affetti, i gesti, le decisioni e i sogni. Per questo ci sono le poesie di Mario Bendetti, perché tutto ciò prende vita nelle sue parole e ci consegna il richiamo di una verità dell’esistenza.
Umana gloria è stato il libro di versi che, dopo molte altre prove note agli amici e a pochi appassionati, lo ha portato all’attenzione di tutti i lettori di poesia. E va segnalata in particolare l’influenza che da subito ha esercitato sui poeti più giovani, soprattutto la generazione dei trentenni di allora, che presto sono diventati, oltre che fedeli ammiratori, i suoi più assidui interpreti.
Mario Bendetti è uno dei maggiori poeti italiani di questo secolo. Scrivo “è”, perché lui non è più, ma le sue poesie ci sono. E nelle sue poesie, in Umana gloria soprattutto, e in Tersa morte c’è Nimis, c’è il Friuli dell’infanzia e quello del presente. Dopo un periodo di distanza, Benedetti tornava spesso a Nimis, seguendo un gioco dell’immaginazione che faceva del suo paese un’origine e un “altrove” dove sempre tornare e da dove sempre ripartire. I due versi riportati in apertura lo dicono, è da Nimis che “Il cielo gira verso Cividale, gira la bella luce/ sulle manine che avevamo, che è stata la vita essere vivi così”.
Sì, “essere vivi così”, con il cielo di adesso che porta via altrove lo sguardo e insieme afferrare nel presente la memoria dell’infanzia: è qualcosa che è, è stato, e non passerà mai.
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