È Venezia la città italiana dove si dicono più parolacce: ecco quali sono
I veneti si confermano i più sboccati in Italia. Da Ruzante ad Alberto Sordi l’epopea dell’offesa e delle imprecazioni nostrane

Perfino Carlo Goldoni ammonisce dal loro uso, ma poi le inserisce, anche se scegliendo tra le più blande, nei suoi testi. La parolaccia a Venezia, la scena dove si svolgono le commedie goldoniane, è - ahimè - frequente, quasi un intercalare.
E se ne “Il padre di famiglia” Goldoni fa ammonire da Ottavio il povero Florindo che lancia una maledizione perché ha perso la spada al gioco (“Non dite parolacce e non maledite”), ne “La locandiera” le uniche forti sono “cospetto di Bacco” e “darò pugni al cielo”.
Ma quello del padre del teatro veneziano è un caso particolare, ben lontano dalla commedia dell’arte veneta dove la parolaccia era frequente e condiva ogni dialogo non solo per far ridere il pubblico, ma per farlo sentire in un ambiente conosciuto.
Angelo Beolco, nel suo “Secondo dialogo de Ruzante” fa dire a Bilora, el contadin pavan, una marea di parolacce ed espressioni colorite quando arriva a Venezia per riprendersi la moglie Dina che se ne sta a farsi mantenere dal vecchio Andronico.
Ma si tratta di espressioni che il pubblico capisce perfettamente, usa abitualmente tanto da poter notare quando vengono dette a torto o a ragione. La parolaccia come pietra fondamentale del dialogo teatrale tanto da far dire al premio Nobel della letteratura Dario Fo, citando proprio Ruzante, che «l’osceno è sacro».
Lo studio della piattaforma linguistica
Che il veneziano e il veneto siano un dialetto infarcito di espressioni licenziose se non decisamente volgari ora viene certificato dallo studio della piattaforma linguistica Preply, una app specializzata nell’apprendimento veloce delle lingue straniere, che ha portato a termine uno studio, non si sa su quale base scientifica, sulle città italiane dove s’impreca maggiormente.
Oltre a prendere per parametro la frequenza delle parolacce dette, lo studio di Preply guarda anche la tipologia e il contesto in cui l’imprecazione viene pronunciata.
Dallo studio così si apprende che a livello nazionale un italiano dice parolacce in media 8,9 volte al giorno. La divisione è immediata tra uomini (11,6 volte al giorno) e donne (6,3), anche se questa differenza si va assottigliando.
Le parole più pesanti vengono usate dai giovani, tanto che tra i 16 e i 24 anni la media nazionale è di 14 al giorno. Poi si va calando: 8,5 volte tra i 25 e i 34 anni; si aumenta lievemente: 8,6 tra i 35 e i 44 anni e infine le si abbandona quando si capisce l’importanza del linguaggio: solo 3,9 tra gli over 55.
Venezia al primo posto
Secondo Preply la città dove si dicono più parolacce è Venezia. Seguono altre città del Nord: Brescia, Padova e Genova, che hanno ottenuto punteggi superiori persino a Milano e Roma (solo al 5° e 7° posto), città più caotiche, ma in cui forse gli abitanti sono più abituati a gestire gli imprevisti e quindi le proprie reazioni.
Sempre tra le prime 10 ma in fondo – al 9° posto a pari merito con una media di 6 imprecazioni al giorno – si trovano Catania, Bologna, Bari, Parma, Verona e Napoli. Chiude Taranto dove si impreca di meno: 5 volte al giorno.
Contro chi e dove
Secondo Preply gli italiani se la prendono prima di tutto con se stessi (21%), contro cose indeterminate (17%), amici (17%), colleghi (11%), partner (10%), sconosciuti (9%), infine i parenti di sangue: sorelle e fratelli (7%) e ultimi i genitori (5%).
Usare parolacce avviene di più quando si è in ambiente casalingo (34%) o con amici (17%), seguono ufficio/luogo di lavoro e in auto (16%).
Quello che impedisce di usare un linguaggio scurrile è la presenza di bambini (78%) o di un superiore (74%).
Le espressioni più colorite in Veneto
Già il Ruzante usava il “cagàr” come espressione di disprezzo per l’interlocutore e ancora adesso “va cagar” è l’espressione veneta più usata in caso di alterco.
Altra sfumatura il “va in mona”, che però, come indica il poeta Giorgio Baffo, indica anche un invito a tranquillizzarsi: non a caso il sommo poeta erotico veneto alla “mona” dedica un’intera ode..
L’inevitabile “testa da casso”, che riprende il “testa di fallo” fatto pronunciare da Cristopher Marlowe (ispiratore di molte opere di William Shakespeare) nel 1589 al suo “L’Ebreo di Malta” nei confronti dei suoi pescatori guarda invece all’incapacità del soggetto a comprendere le cose più elementari.
Portata in teatro la musica di Sir Oliver Skardy e dei suoi Pitura Freska è infiorita di “bueo”, cioè sfintere: sia espressione di disprezzo che di grande fortuna (bueo marso), e di averla scampata bella “gran bueo, parola de bideo” la cui rima è riferita alla professione, bidello appunto, espletata da Gaetano Scardicchio, che altri non è se non Sir Oliver fuori dal palco.
Se poi volete passare dal teatro al cinema, dovrete invece limitarvi al molto più blando “ostregheta” che Dino Risi fa dire a Bepi (Alberto Sordi) per tentare di convincere la sua Nina (Marisa Allasio) di non esserle stato infedele. Unico problema: i veneziani non lo usano.
Infine in “Atlantide”, il bel film di Yuri Ancarani osannato alla 78 Mostra d’arte cinematografica di Venezia, si ricorre spesso a “morti cani”, espressione che nulla ha a che fare con rime dell’autore ma con il disprezzo per la genealogia dell’offeso.
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