Ecco perché è stato Giosuè a sparare. I giudici: si è fabbricato un alibi falso

PORDENONE. Si è costruito un «alibi falso» per commettere un delitto premeditato. Il quadro indiziario nei confronti di Giosuè Ruotolo, 29 anni, ex militare di Somma Vesuviana, esce arricchito dalla sentenza di secondo grado.
In 272 pagine la Corte d’assise d’appello di Trieste, presieduta da Igor Maria Rifiorati, giudice relatore Mimma Grisafi, motiva la conferma dell’ergastolo e di due anni di isolamento diurno all’imputato per l’omicidio del commilitone Trifone Ragone e della sua fidanzata Teresa Costanza. I due giovani sono stati uccisi da sei colpi di pistola nella loro Suzuki Alto all’uscita della palestra in via interna, il 17 marzo 2015.
Per i giudici la responsabilità dell’imputato risulta provata al di là di ogni ragionevole dubbio, non ci sono lacune nell’istruttoria e nella motivazione della Corte d’assise di Udine. La prova che sia stato proprio Giosuè a premere il grilletto «si ricava da una lettura complessiva e unitaria degli indizi».
A quelli individuati in primo grado (la presenza di Ruotolo nel parcheggio del palasport al momento dell’omicidio, della sua Audi A3 subito dopo gli spari nel piazzale e pochi istanti dopo nel parco di San Valentino, la tuta e le scarpe da ginnastica indossate quella sera da Giosuè mai più viste dai coinquilini) la Corte d’assise d’appello di Udine aggiunge nuovi elementi.
Giosuè non ha mai spiegato, secondo i giudici d’appello, perché si trovasse nel luogo e all’ora del delitto. Quella presenza, secondo i giudici, non può essere ritenuta «casuale o occasionale», visto che si è protratta per quasi mezz’ora vicino al vano tecnico (l’Audi A3 di Ruotolo viene immortalata in arrivo dalla telecamera 8 bis alle 19.18.36 e poi alle 19.49.34, «oltre due minuti dopo l’omicidio»).
I giudici ritengono false le giustificazioni addotte da Giosuè (l’attesa per uno stallo libero, il rinnovo dell’abbonamento in palestra). Quanto alla sosta al parco di San Valentino, la Corte d’assise d’appello è certa: non ci è andato per correre, è rimasto solo sei minuti per buttare la pistola, non è vero che faceva freddo, era in tuta e c’erano nove o dieci gradi. Un altro indizio è il blackout delle comunicazioni:Ruotolo ha lasciato a casa i il cellulare e non ha contatti fra le 19.11 e le 20.13, tanto che la sua fidanzata Mariarosaria Patrone si è meravigliata e gli ha scritto: Amore ma hai fatto qualcosa che non mi hai detto per caso.
È proprio la fidanzata «ad avanzare il sospetto che Ruotolo fosse l’autore dell’omicidio e ad avere la preoccupazione di averlo istigato». Sospetto che non prova nulla, ma viene ritenuto significativo per la conoscenza intima fra i due fidanzati.
A far puntare i riflettori su Ruotolo, però, è l’aver «fornito un alibi, non solo rivelatosi falso, ma precostituito, ossia il più indiziante». Per sei mesi ha sostenuto con gli inquirenti di essere rimasto a casa con i coinquilini a giocare alla play station.
Solo il 23 settembre 2015, quando i carabinieri del nucleo investigativo gli hanno messo davanti un fotogramma dell’Audi A3 ripresa dalle telecamere, ha ammesso di essere uscito. Nei coinquilini Daniele Renna e Sergio Romano, le cui testimonianze sono state ritenute attendibili e riscontrate, ha cercato di instillare secondo i giudici «un falso ricordo» della sua presenza a casa.
La Corte d’assise d’appello ha evidenziato una contraddizione: da un lato Ruotolo temeva a suo dire di pregiudicare il suo accesso nella Finanza se fosse stato «attenzionato» per la sua presenza nel parcheggio come mero testimone, dall’altro ha precisato che però era convinto che gli inquirenti avessero scoperto il responsabile grazie alle telecamere installate sul palasport (in realtà non funzionanti). Un non senso per i giudici: perché se le telecamere avesse funzionato, lo avrebbero ripreso e quindi lui dicendo di essere stato a casa avrebbe commesso il reato di false dichiarazioni ai pm, che lo avrebbe escluso comunque dalla Finanza.
Agli occhi dei giudici conta molto come Giosuè si è comportato dopo il delitto: «Ruotolo ha sin dall’inizio improntato la sua condotta alla menzogna e non ha mai collaborato», «ha riconosciuto la verità di alcuni fatti (...) dopo aver ripetutamente mentito» solo quando «le risultanze investigative lo hanno messo con le spalle al muro», «ha continuato a negare che i suoi rapporti con Ragone si erano progressivamente deteriorati, sostenendo di non aver mai litigato, tacendo fino all’esame in dibattimento l’esistenza dei messaggi molesti»
L’ipotesi che il killer dei fidanzati sia una persona diversa da Ruotolo «implicherebbe la verificazione di una serie di coincidenze casuali la cui contemporanea ricorrenza nel calcolo delle probabilità (...) appare davvero collocarsi oltre il limite della ragionevole possibilità», concludono i giudici. Alla difesa di Ruotolo, ora, resta la terza chance, quella del ricorso in Cassazione.
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