Ergastolo per Ruotolo, la lunga difesa in aula: «Non ero lì, c’è il dna di un altro. Anch’io voglio la verità per loro»

TRIESTE. «Almeno su una cosa qui siamo d’accordo tutti: avere giustizia per Teresa e Trifone. Non parla soltanto un ragazzo, ma gli accertamenti scientifici del Ris. Uno non pretende molto, presidente, solamente che mi venga applicata la verità».
Giosuè Ruotolo, 29 anni, imputato dell’omicidio di Teresa Costanza e Trifone Ragone, è un fiume in piena. In piedi, stringe il microfono con una mano e con l’altra si aiuta, come per afferrare le parole mentre arrossisce sempre di più nella foga di far sapere ai giudici «le cose importanti». Parla per 27 minuti, interrotto di tanto in tanto dal presidente Igor Maria Rifiorati per la verbalizzazione.
Dopo quasi otto ore di camera di consiglio, è stata confermata dalla Corte d'assise di Appello di Trieste la condanna all'ergastolo inflitta in primo grado a Giosuè Ruotolo. Il verdetto di primo grado era stato emesso della Corte d'assise di Udine l'8 novembre 2017.
Il rapporto tra commilitoni
«Con Trifone – esordisce così – non c’era nulla». Lo hanno testimoniato i commilitoni, come Pietro Ranieri, che «due o tre giorni prima della tragedia ci ha visti ridere e scherzare sotto il tendone durante le esercitazioni». Sulla genesi dei messaggi Facebook Giosuè ribadisce che sono coinvolti anche i coinquilini Daniele Renna e Sergio Romano: «Nell’ultimo periodo Trifone non si comportava bene a casa, faceva dispetti: ritardi nei pagamenti, non puliva casa e non lavava i piatti. Romano parlando con Renna, c’ero anche io, siccome aveva il numero di Teresa, dispetto per dispetto decise di far sapere a Teresa tutte le frequentazioni di Trifone (...). Presidente, io ero il più piccolo, avevo 23-24 anni, loro 27-28, in tutta leggerezza ho deciso di accettare. Le garantisco però che Trifone di questi messaggi non se ne è fregato niente e non è andato a cercare nessuno, né me né Renna o Romano. Tanto è vero che non ha nemmeno chiesto spiegazioni ad Annalisa Martino (i messaggi erano stati firmati “Annalisa”, ndr).
La cosa importante è che quei messaggi sono stati mandati 9 mesi prima della tragedia, ma Teresa e Trifone non sono stati uccisi da messaggi Facebook, ma da colpi di arma da fuoco, non c’è niente che riguarda me come persona, non c’è niente, né Dna né saliva né impronte né polvere da sparo, non lo dico io, lo dice una relazione dei Ris di Parma che sono estraneo ai fatti. Mi sono dovuto sentire la parola ergastolo sulla mia persona. Ma, signori miei – Giosuè si infervora e ripete –, ergastolo per cosa, ergastolo per cosa, ergastolo per cosa?».
L’imputato osserva poi che in questo processo indiziario le prove ci sono, ma a suo discarico. «Hanno voluto dare libero sfogo alla fantasia – punta il dito contro i coinquilini –. Renna e Romano hanno detto che io ho litigato con Trifone, che la lite sarebbe cominciata in caserma e finita in palestra, invece sono venuti a testimoniare tutti quelli della caserma e della palestra e li hanno smentiti».
Nessuna minaccia di denuncia da parte di Trifone, precisa Giosuè, anzi: «La verità è che con Trifone non ho mai litigato né verbalmente né fisicamente». L’imputato osserva che si è parlato della «lite inventata» dai coinquilini e non «di quella di una settimana prima della tragedia». «Per un anno pm e avvocati sono andati avanti dicendo che si era fatto male nell’allenamento, poi è arrivato l’istruttore e ha spiegato che Trifone era già arrivato dolorante».
La sera del 17 marzo
«Hanno detto che dico bugie, ribadisco – si sfoga – che io bugie non le dico e vi spiego. Per non aver detto che sono passato al palasport e al parco di San Valentino mi hanno fatto un processo, invece io avevo l’auto da due giorni, il giorno prima ho parcheggiato dove parcheggio di solito in palestra, ma quella sera era occupato perché sono arrivato più tardi».
Racconta poi di aver fatto «il giro largo» per andare a correre al parco, ribadisce che quella sera «faceva freddo, tirava vento. Da lì sono tornato a casa. Per me, presidente, lo giuro, un giorno come tutti gli altri, non ho visto né sentito niente, non potevo dare il minimo contributo alle indagini. Ho pensato che il semplice fatto di essere attenzionato avrebbe pregiudicato l’ingresso imminente nella Finanza».
Sapendo che c’erano le telecamere, era sicuro che il killer sarebbe stato subito preso. Non si aspettava che l’omissione lo avrebbe inguaiato, mentre invece altri – cita per esempio Ferrandi– che non hanno rivelato subito di trovarsi al palasport e al parco non hanno avuto alcuna conseguenza. «Soltanto di me si è parlato con parole gravi. Io sono rimasto...».
L'ex fidanzata Rosaria
Ricorda che dal palasport si poteva entrare e uscire senza essere visti imboccando la Pontebbana: bisogna indagare «su tutte le persone non inquadrate, non su di me che vado in palestra sotto 10 mila telecamere». Si ferma per trangugiare una sorsata d’acqua: sta per mancargli la voce.
Poi rievoca le parole di un’amica di Mariarosaria Patrone, la sua ex fidanzata: «Mariarosaria temeva di aver istigato Giosuè a uccidere Trifone. Non so perché lo abbia detto, avrei voluto che Rosaria chiarisse questa situazione davanti alla corte di assise di Udine, ma ci metto la mano sul fuoco: Rosaria – la difende ancora una volta – non l’ha mai detta quella frase, perché sarebbe stato assurdo istigarmi a uccidere una persona che non aveva mai conosciuto. Non so perché non abbia parlato a Udine, se per scelta sua o del suo avvocato».
Le incongruenze sugli orari: l'ultimo baluardo della difesa
«Questo processo non ha fatto giustizia, ma ha fatto un colpevole, non ha fatto giustizia, ma un condannato incolpevole». Così l’avvocato Giuseppe Esposito ha chiesto l’assoluzione di Giosuè Ruotolo per non aver commesso il fatto. Il legale si è concentrato sull’orologio e sulla telecamera della palestra fitness dalla quale sono usciti la sera del 17 marzo 2015 tre testimoni chiave: nell’ordine Andrea Capuani, dopo 11 secondi il runner Maurizio Marcuzzo e dopo altri 2 secondi il vigile urbano Alessandro Cantarutti. Tutti e tre hanno riferito agli inquirenti di avere sentito gli spari, scambiandoli inizialmente per petardi, e tutti e tre hanno eseguito simulazioni con il pm, ripetendo il tragitto.
L’avvocato Esposito ha incrociato le simulazioni ai dati di orologio e telecamere (sfasate rispetto all’ora reale di circa 6-7 minuti «con giudizio di tranquilla coerenza», secondo il consulente del pm Paolo Reale) ed è arrivato alla conclusione che gli spari uditi da Marcuzzo («Il totem dell’accusa») non possono essere gli stessi uditi dagli altri due testimoni. Perché? Perché, pur essendo usciti dalla palestra a pochi secondi di distanza gli uni dagli altri – considerando gli orari impressi sulle registrazioni video senza considerare l’ora reale –, Capuani ha sentito gli spari nel piazzale circa 1’52’’ dopo, Cantarutti (che parcheggia altrove) circa 1’20’’ dopo, mentre Marcuzzo ha ribadito più volte di essersi fermato ad ascoltare per circa due minuti un messaggio vocale e soltanto dopo 40 secondi in via Amendola ha udito le esplosioni. Le incongruenze, secondo la difesa di Ruotolo, aumentano se si prende in considerazione anche l’orario reale, calcolato sulla base delle indicazioni fornite dal consulente (6-7 minuti): Marcuzzo ha sentito gli spari quando Ruotolo era già andato via dal parcheggio.
L’avvocato Esposito ha detto che il video della palestra è stato trascurato dagli inquirenti. Per la difesa il filo conduttore del processo è stato «lo stravolgimento della logica». La nota trovata nell’iPhone di Mariarosaria Patrone, definita «la stele di Rosetta» dal pm Vallerin, è stata creata 6 mesi dopo la morte dei fidanzati: non era una scappatoia psichiatrica per scaricare sulla ragazza la colpa dei messaggi Facebook molesti. I messaggi deliranti di Mariarosaria erano scatenati dalla sua gelosia e dal bisogno spasmodico di attenzione. Per la stessa ragione, secondo Esposito, non è stato dato peso alle testimonianze di Capuani, «sicuro che non ci fossero auto all’altezza del locale pompe», o di Caticchio, che invece ha visto «un’Audi sportback a 5 porte» vicino al locale pompe. Il messaggio inviato da Trifone a Giosuè il 2 marzo, 15 giorni prima di morire, era amichevole: allungava sempre la vocale finale dei nomi degli amici. Quanto ad Annalisa Barba, come avrebbe potuto confondere la lite alla fine dell’estate fra i tre coinquilini e Teresa e Trifone con quella durante la festa degli alpini fra i soli Giosuè e Trifone se neppure era a conoscenza di quest’ultima?
La famiglia Ragone
Giosuè ci tiene a precisare che non ha mai chiesto 20 euro alla mamma di Trifone quando è andato con gli altri commilitoni a porgerle le condoglianze per la morte del figlio. I militari erano in fila, c’era solamente il tempo per poche parole. «Ma figuriamoci se io con l’Audi A3 e i vestiti firmati vado a chiedere soldi a una madre che soffre». A
ggiunge poi che non è mai stato ospitato a casa di Trifone come ha sostenuto il padre Francesco Ragone. Si rammarica: «A me hanno preso l’auto, perquisito casa mia, dei miei genitori, dei miei nonni con esito negativo. A Protani, invece, che è l’ultimo ad aver visto vivi Teresa e Trifone, gli hanno consentito di rottamare l’auto, senza che lei, presidente, potesse fare accertamenti. Quando invece io ho chiesto la restituzione dell’Audi A3, che serviva a mio padre, i carabinieri mi hanno detto che l’auto serviva a lei». L
’equivoco scatena un istante di ilarità in aula. «Vuol dire alla giustizia...», ribatte il presidente. Giosuè annuisce. «Volevano collocare la mia auto nel parcheggio per forza, l’hanno trasformata in tutto quello che si trovava, sportback, suv, facciamo pure camion e non se ne parli più. Ma io lì non c’ero: lo dicono i testimoni, non ci sono tracce. Perché alla fine non è possibile che io sia qui a processo con il Dna di un altro invece che è fuori».
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