Farmaco costa meno e ha lo stesso effetto, ma pochi lo prescrivono

Esposto degli oculisti sui medicinali per la maculopatia. L'assessore regionale  Telesca: gli ospedali tenuti a usare quello conveniente

UDINE. Caos Avastin-Lucentis, si muove la procura. È la Società italiana di oftalmologia, Sio, ad aver deciso, a livello nazionale, di sottoporre la vicenda alla magistratura alla quale ha depositato un report nel quale risulta evidente il sottoutilizzo dell’Avastin (farmaco a basso costo e utilizzato per contrastare la maculopatia che insorge con l’età) e l’utilizzo massiccio del Lucentis (medicinale appositamente messo in commercio per la stessa patologia, mentre l’Avastin aveva altre indicazioni, ma contenente lo stesso principio attivo).

Ma dove sta il danno? Nel costo che il Servizio sanitario sostiene a discapito del numero di pazienti che potrebbero venire curati e che, invece, non lo sono. Dal report della Sio emerge che anche il Friuli Venezia Giulia si troverebbe nella medesima situazione, visto che su 4 strutture che hanno risposto al questionario della Società di oftalmologia, solo due hanno dichiarato di usare l’Avastin, mentre le altre due il Lucentis.

«Per quel che riguarda la nostra regione - chiarisce l’assessore regionale alla Salute, Maria Sandra Telesca - ancor prima che la vicenda Avastin-Lucentis esplodesse, ce ne eravamo occupati facendo in modo che le tre strutture Hub per l’oculistica (Ospedali di Udine, Trieste e Pordenone) potessero utilizzare l’Avastin sulla base dei protocolli di sperimentazione. Più tardi abbiamo preso atto delle direttive dell’Aifa e le tre strutture hanno definito regole e modalità con cui i farmaci sarebbero stati utilizzati».

E sono proprio quelle “regole” dell’Aifa che la Sio contesta. «L’Agenzia - spiega il primario di oculistica del Santa Maria degli Angeli di Pordenone, Giorgio Beltrame - ha messo un limite all’impiego dell’Avastin, che è quello di poter essere utilizzato esclusivamente nei Centri ospedalieri ad elevata specializzazione che hanno una farmacia in grado di preparare la soluzione intraoculare iniettabile. Questo significa impedire l’utilizzo del medicinale in tutti i centri che non sono pubblici. Da qui la protesta della Sio». In Friuli Venezia Giulia le tre strutture di riferimento per l’oculistica impiegano, dunque, Avastin o Lucentis in relazione alla patologia da trattare. E questo vale per Pordenone, come per Udine, come per Trieste.

A livello Italia le cose paiono diverse, visto che l’utilizzo dell’Avastin dal 2012 al 2015 si è ridotto di due terzi, passando dal 56 per cento di novembre 2012, al 18 per cento di febbraio 2015; per contro il Lucentis è salito dal 38 per cento del 2012 al 55 per cento del 2015. Traducendo le percentuali in spesa sanitaria, sempre secondo il rapporto della Sio, tra marzo 2014 e febbraio 2015 il Servizio sanitario ha speso 142 milioni di euro per il Lucentis e 337 mila euro per Avastin.

Nonostante ciò, il numero di pazienti in trattamento è nettamente inferiore a quel che avviene negli altri Paesi europei: 240 mila trattamenti intravitreali in Italia contro i 628 mila della Grand Bretagna, i 590 mila della Germania, i 688 mila della Francia. E a livello di spesa sostenuta per i trattamenti, l’Italia ha speso 177 milioni in un anno, la Gran Bretagna 661, la Germania 573 e la Francia 560 milioni di euro.

«Le regole imposte da Aifa - spiegano dalla Sio - hanno comportato che solo 57 strutture ospedaliere su 215 esistenti, oggi utilizzano Avastin. E oggi solo 100 medici oculisti possono usare Avastin mentre gli altri 6 mile 900 medici oculisti non hanno alcuna possibilità concreta di prescrivere e di utilizzare questo farmaco. Una situazione a dir poco vergognosa, che di fatto ha impedito di erogare il 70 per cento delle cure intravitreali necessarie per sostenere le esigenze terapeutiche dei pazienti italiani rispetto a quanto viene fatto normalmente in Francia, Inghilterra e Germania».

La Fondazione “Insieme per la vista” ha valutato che il danno subito (una media di 20 mila euro a persona) dai 65 mila pazienti che non hanno avuto un adeguato accesso alle cure, ammonterebbe ad una somma risarcitoria superiore ad 1 miliardo di euro.

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