Fuga con i coreani da Mogadiscio, l’ambasciatore Sica ricorda la Somalia del 1991
Nel kolossal di Ryoo Seung-wan l’ex diplomatico italiano in Namibia è interpretato da Enrico Ianniello
UDINE. Prima di svegliarsi a Mogadiscio nell’epicentro dell’insurrezione l’ambasciatore italiano Mario Sica, col placet del governo, acquistò un castello in Namibia, «un magnifico maniero di proprietà tedesca che avrebbe custodito le strategie diplomatiche italiane», spiega lo stesso Sica. Fu l’allora ministro De Michelis a dirottare nell’aprile del 1990 il console italiano in Somalia, terra piuttosto burrascosa per le ultime apparizioni del dittatore Siad Barre ferito gravemente in un incidente d’auto e osteggiato da nuove correnti politiche somale.
La Corea del Sud ci ha fatto un film, anzi un blockbuster dagli incassi stellari, sulla più rocambolesca fuga dalla Somalia da parte di alcuni consoli che si rifugiarono nell’ambasciata italiana, «fra cui i coreani di Nord e Sud – ricorda Sica – loro malgrado uniti per ventiquattr’ore sotto lo stesso tetto tricolore per salvare la pelle dalle pallottole dei ribelli».
“Escape from Mogadishu” di Ryoo Seung-wan, molto applaudito martedì 26 aprile al Giovanni da Udine, rivela un frammento di storia poco conosciuto, ma estremamente importante soprattutto per l’unica convivenza forzata dei sudisti e nordisti coreani, nemici per la pelle. «Nel trasferimento all’ambasciata italiana un componente della delegazione del Nord fu colpito al petto e morì nei nostri uffici. Gli fu concesso il permesso di essere sepolto da noi».
L’ambasciatore Sica, che nel film è interpretato dall’attore italiano Enrico Ianniello, è stato determinante per la salvezza degli ostaggi, ma nei suoi racconti il suo essere con eleganza equidistante dai fatti fa apparire tutto questo come una naturale conseguenza a certi tragici fatti. «I primi mesi nella capitale – rievoca il console, classe 1936, autore fra l’altro di un libro sulla vicenda, “Operazione Somala”, Marsilio editore e ospite del Far East Film Festival – non furono comunque semplici. Avevo un dialogo frequente con Barre, ma a lui piaceva promettere e non mantenere. La guerra persa nell’Ogaden costrinse il dittatore a parecchi passi indietro. Il mio programma prediligeva la formazione, nonostante ci volessero più presenze italiane a garantire un utile iniziale affiancamento, come avvenne nel Gibuti con i francesi: ce n’erano più di duecento. Noi, un paio. Un disequilibrio che ci impedì di realizzare tutti i piani prefissi. La nostra influenza era poco più che nulla, in realtà. Il governo italiano stanziava somme annuali destinate alla Somalia, col disappunto fra l’altro di molti parlamentari, che servirono per acquistare qualche carro armato e ben poco altro».
E così, con l’organizzazione italiana, Sica mise in salvo i colleghi coreani e altri tre ambasciatori, fra cui quello pakistano, nonché i suoi, facendoli salire su aerei messi a disposizione della Farnesina. Il 26 gennaio Barre fu destituito e iniziò un altro infinito periodo di tensioni e, non a caso, il Paese del Corno d’Africa è stato definito uno Stato senza Stato».
Ci fu anche una parentesi coreana del Nord per Sica, che il console ama ricordare soprattutto per «un silenzio irreale della capitale Pyongyang. Era il gennaio 2001, quindi in piena dittatura di Kim Jong – il, padre dell’attuale leader, e una vigilessa dirigeva uno scarsissimo traffico pedonale. Automobili non ce n’erano, se non quelle ufficiali del regime. E qualche bicicletta. Le guardai con attenzione e stupore perché erano di legno».
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