Generazione perduta, «Pagato 2,50 euro l’ora ma è meglio di niente»

UDINE. Udinese, 32 anni, approda agli stage tramite lo Ial perché «gli ammortizzatori sociali erano finiti». Guadagna 2,5 euro lordi l’ora, ma non si lamenta. Quello che pesa è «avere dovuto sacrificare la propria indipendenza e magari anche sentirsi chiamare “bamboccione”», spiega.
Questo è il secondo corso che sta affrontando allo Ial. «Sono approdato allo Ial perché ero in disoccupazione, una situazione che è proseguita per più di un anno - racconta -. Avevo sostenuto una serie di colloqui che però non era andata a buon fine. Ho insomma incontrato diverse difficoltà nella fase di cambio occupazione. E i corsi retribuiti, seppure con un semplice rimborso spese, mi sono sembrati una buona idea per un reinserimento lavorativo. Ho quindi preferito impegnare il tempo in maniera formativa, sacrificando magari la possibilità di partecipare ad altri colloqui».
L’accesso a quel particolare tipo di corsi però è vincolato a uno status di disoccupazione. «Cercavo lavoro ormai da oltre un anno - racconta il 32enne -, ma senza fortuna».
L’uomo suo malgrado è stato anche vittima della burocrazia che ha mandato «gambe all’aria un progetto di startup che avevo realizzato in collaborazione con un gruppo di ragazzi». Prima di questa esperienza si era anche reinventato come addetto commerciale in un’azienda.
«Il precedente lavoro l’ho perso perché ero stato assunto a tempo determinato in un’azienda e quando hanno cambiato la gestione, non mi hanno rinnovato il contratto che era in scadenza. Hanno lasciato a casa tutte le persone senza un contratto a tempo indeterminato», spiega il giovane. Oggi il 32 enne è impegnato in uno stage in una grande catena di negozi e guarda al futuro con positività.
«Sto completando le 200 ore di stage, dopo 200 ore di lezioni frontali - spiega -. Questo è il secondo corso dello Ial che faccio perché era quello che volevo originariamente fare, ma all’atto della chiusura delle iscrizioni i candidati erano scesi sotto il numero minimo e il corso era slittato. Di conseguenza, piuttosto che non fare nulla, ho ripiegato su un’altra idea perché puntavo a un’esperienza formativa e di inserimento».
L’obiettivo era e resta trovare una nuova occupazione. «La speranza è trovare aziende che diano la disponibilità a questo tipo di attività, spero insomma che vogliano assumere qualcuno che è stato formato da un centro riconosciuto e anche dall’azienda stessa - sottolinea -. Durante la precedente esperienza ho seguito 200 ore di lezioni per due mesi e mezzo, dunque con un corso intensivo di otto ore il giorno più altre 200 ore in azienda. Dal punto di vista lavorativo purtroppo le cose non sono andate bene, ma ho sostenuto un esame finale superandolo e comunque è una certificazione in più da spendere».
Considerato l’esito negativo della ricerca di lavoro e il nuovo corso ai blocchi di partenza, il giovane udinese si è «lanciato nella nuova avventura a capofitto». L’obiettivo è sempre stato «cercare inserimenti in contesti lavorativi diversi da quello di provenienza - ha precisato -, ma in cui le precedenti esperienza potessero comunque risultare utili, penso al contatto con il pubblico».
E anche quei 2 euro e mezzo lordi all’ora «non sono poi così male, perché il tipo di moduli che ho affrontato di solito sono a pagamento, mentre in questo caso ho anche un piccolo rimborso spese. Ho attestati sull’Haccp, il protocollo di prevenzione per il trattamento dei cibi, e sulla sicurezza che normalmente si pagano. Ho anche fatto due conti della serva e, se avessi fatto i corsi singolarmente, avrei speso qualche centinaio di euro, forse anche 500. Quindi farli prendendo anche qualche soldo, per quanto pochi, è positivo. E ti permette di affrontare quei mesi con il cuore un pochino più leggero».
Ovviamente la situazione lavorativa ha un pesante impatto sulla vita personale del giovane. «Vivevo da solo già da qualche anno quando poi sono dovuto rientrare a casa con mamma e papà, con implicazioni pratiche, morali e personali non da poco per il fatto che, a 30 ani, devo sacrificare la mia indipendenza. Quello che dà fastidio è sentirsi pure dire che è comodo e rientrare nella qualifica di “bamboccione”. Come se non avessi già abbastanza problemi con la mia coscienza per essere ritornato a casa».
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