Giulia Calligaro, inno alla vita con gli “Esercizi di felicità”

Una parola che non deve spaventare, un’occasione per imparare a crescere La scrittrice presenta un libro che regala emozioni e la capacità di meravigliarsi
Non si finisce mai di fare esercizio con la felicità, ma quando inizi a praticarla la vita diventa un viaggio davvero sorprendente. Completamente sorprendente. Di questo mi sono convinta una volta di più nei giorni scorsi, mentre giravo per Londra con una bambina di cinque anni per mano. Io non amo Londra, amo il sole e amo la natura. Non amo le città in generale, anche se risiedo a Milano da 15 anni, cioè da quando sono andata via dal Friuli, anche per poterlo amare meglio, con nostalgia.


Sopra di me dunque c’era un cielo già carico di autunno, il cielo che nella capitale britannica resta in dissolvenza dietro ogni stagione. Intorno c’era Londra come me la ricordavo: l’ordine un po’ raggelato nelle cose, il flusso impaziente delle persone che sanno dove andare, gli sguardi vuoti che dondolano il mattino presto nella metropolitana. Però io avevo vicino una bambina e il mondo aveva la forma dei suoi occhi. Aveva forma di ponti sospesi tra castelli, aveva sorrisi sporchi di cioccolato, la gioia di una treccia nuova nei capelli per il primo giorno di scuola, girasoli da stringere più grandi delle mani, salti tra le fughe dei marciapiedi, perché chi le pestava pagava pegno. Aveva l’emozione e il fiatone di chi aggiunge ogni giorno qualche nuovo stupore al vocabolario del mondo.


Francesca è la mia nipotina, lei è nata e vive a Londra. Ero lì per curarmi di lei e ho finito per imparare io stessa molte cose. Ho capito ad esempio che non mi dispiace più il fatto che Londra non mi piaccia. E che solo le mani tese del mio pregiudizio, ovvero la mia paura di qualcosa di diverso da me, mi avrebbero fatto sprecare un’occasione di felicità. E che invece stando lì con tutto il cuore, in ogni momento in quel che accadeva, potevo godere con curiosità di una delle possibili finestre aperte sulla vita, senza critica, senza confronti. Nutrita solo dell’immensa varietà e potenzialità dei giorni di un’esistenza. Mi sono accorta che ero una persona diversa dalle ultime volte in cui c’ero stata: che ero diventata una persona più felice. Che il mio sguardo si era riavvicinato in questi anni a quello tanto puro che mi camminava accanto.


Lo so, la parola ‘felicità’spaventa, sembra sempre troppo grande, fuori dimensione, e così fragile da poter avvizzire solo a pronunciarla. Eppure con questo timore si rischia di non fermarla mai, di tenerla sempre un passo avanti al proprio andare. Si tratta a mio avviso piuttosto di intendersi su cosa significhi ‘felicità’. Perché se la si fa corrispondere all’arrivo di qualche cosa che si aspettava -un amore, un lavoro, una sicurezza che ci raggiunge da fuori - beh allora sì, è davvero vulnerabile e potrebbe scomparire in ogni istante. Ma se intendiamo invece la disponibilità interiore ad accogliere ogni cosa che ci viene incontro nel cammino come un’occasione per imparare e per crescere, certi che si tratti di un pensiero del creato fatto apposta per noi affinché possiamo compierci, allora siamo in una fortezza da cui nessuno potrà mai espugnare la gioia. E ciò non vuol dire che non arriveranno più dolori, fatiche, sfide: semplicemente avranno un altro nome, saranno ogni volta l’anticamera di una nuova espansione, se sapremo farne buon uso.


Il dolore, ho scoperto, non che è questo: trattenere qualcosa che se ne vuole andare, non accettare uno stato delle cose differente dalle aspettative. Ed è più la presa stretta delle mani su ciò che non si può stringere a provocarlo, di quanto faccia il cambiamento in arrivo, poiché quella di mutare continuamente è la natura stessa del vivere. Per me il dolore ha le unghie appuntite dei primi mesi in cui sono arrivata a Milano, con la vita franata dietro, senza nessuna certezza di essere in grado di superare il precipizio. E più mi affannavo a cercare di riempire il buco, di rivedere al suo posto tutto quello che non c’era più, e più gli artigli affondavano. Ad un certo punto, mentre il corpo continuava a compiacersi di questo stare male, come fosse l’ultima manifestazione di quel che avevo perduto, l’anima, stanchissima, ha detto basta: ha preso il timone e mi ha portato via. Non oltre il buco: dalla parte opposta, dove, tutta presa dal passato, non mi ero neppure accorta che si apriva una strada meravigliosa, fiorita e piena di cose e di incontri che aspettavano proprio me.


È stato così che ho iniziato a fare degli ‘esercizi di felicità’, cioè a cercare di ascoltare e di rispettare ad ogni passo la mia voce più saggia e più profonda, e a fermarli con la scrittura in minuziosi diari, perché questa era la lingua che usavo tra me e me fin da quando ero bambina. Quel che è nato da lì in poi è stata la mia vita, e alla frattura che l’ha originata penso oggi con molta gratitudine. Ho scoperto infatti anche che il nostro più grande nemico è la paura, ed è la cosa che ci frena dal far fiorire tutti i semi che abbiamo dentro. Dalla paura si originano i giudizi, cioè le delimitazioni a ciò che non comprendiamo; i lamenti, ovvero il pensiero confortevole che siano fuori e non in noi i colpevoli dei nostri mali e della nostra distanza dalla felicità, e quindi gli ostacoli a realizzare i sogni e i talenti, che non sono davvero nostri ma doni che abbiamo ricevuto e che dovremmo, prima di ogni altro obiettivo, onorare per rendere più luminoso il mondo. Senza troppi vanti, ognuno con il coraggio di seguire la propria strada.


Al contrario quello che scorre sotto la paura è la vita pura: e proprio questa vita ho cercato dal momento in cui il mio cammino ha invertito il suo corso. L’ho cercata con tutta me stessa. Ho iniziato a leggere libri di Maestri e a viaggiare contemporaneamente dentro di me e in mondi lontani, in particolare in quelli che di solito chiamiamo mondi poveri, dove la vita è ancora incandescente e spesso gli uomini e gli Dei vivono in un rapporto di prossimità. Ho viaggiato per raccontare storie tra gli indios e gli sciamani in Perù, ho imparato ad amare meglio da donne meravigliose che sono state in grado di perdonare i loro aguzzini in Ruanda dopo il genocidio, ho sentito il buono di un frutto quando si ha sete e fame con i bambini randagi di Haiti. Ho fissato nel cuore molte albe e molti tramonti, la gioia di un cane la prima volta che riceve una carezza e anche la sorpresa che dopo l’inverno ritorna sempre la primavera. Infine ho avuto il privilegio di raggiungere la patria della saggezza antica, in India, perché nel frattempo avevo abbracciato lo yoga che ora è parte naturale dei miei giorni, e il mio viaggiare si è fatto ancora più profondo. Sono caduta e mi sono rialzata molte volte durante questo cammino, ma ora che ho una direzione - e la direzione è strappare sempre più spazio al buio e trasformarlo in luce e in consapevolezza - non fa più così male cadere.


Da tutti questi ingredienti è nato il libro Esercizi di felicità. È una raccolta di espansioni di luce dalle mie scritture private, organizzate come un sillabario degli stati d’animo dalla A alla Z. Accanto a me ha scritto Jayadev Jaerschky, meraviglioso maestro e direttore della Scuola di Ananda yoga di Assisi che per me è casa, abbinando ad ogni esercizio umano una pratica yogica per rendere concreta l’esperienza. Completa ogni capitolo un’ispirazione di Paramhansa Yogananda, ai cui insegnamenti si rifà l’Ananda yoga. Ma vorrei precisare questo: il libro non è un ricettario pronto di felicità, è la testimonianza di un viaggio di scoperta interiore, un viaggio che volta le spalle al disincanto e ritorna ad una gioia originaria, che tutti abbiamo dentro, proprio come quella che ho ritrovato ora dentro gli occhi di Francesca. Uno sguardo capace di meraviglia che sono felice di presentare ora a Pordenone, la terra dove tutto è iniziato.


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