"Ho perso mio papà per il Covid. La paura per la morte e la distanza che lacera: la mia lettera ai negazionisti"

"Finché un giorno non senti un pugnale trafiggerti il cuore e l’anima alle parole “Non c’è più niente da fare”. Il mondo si ferma. Il tempo si ferma. Il tuo respiro si ferma. Guardi il vuoto. Smetti di pensare. Non riesci a parlare. Annuite in lacrime quando vi chiedono “Volete vederlo un’ultima volta?”

Mi chiamo Alberto Bertossi, ho 30 anni, vivo a Udine e il 22 dicembre ho perso mio padre di 70 anni, morto a causa del coronavirus dopo un mese di malattia. Questo testo vuole essere una testimonianza diretta di ciò che il virus può fare a tutte le persone che si trovano ad avere un parente malato e a non potergli stare vicino. E non mi riferisco ai danni fisici, ma a quelli che colpiscono direttamente il cuore, l’anima e lo spirito in maniera lenta ma persistente, giorno dopo giorno, come un ago che si infila nella carne un centimetro alla volta. Questo testo si rivolge anche a coloro che ancora oggi negano l’esistenza del virus o la sua pericolosità e spero che, leggendo le mie parole, tali persone possano prendere coscienza e avere un po' più di rispetto per chi ha subito una simile esperienza, magari evitando di far peggiorare la situazione con manifestazioni pubbliche. Il mio pensiero e la mia solidarietà vanno a tutti coloro che hanno vissuto in prima persona la stessa esperienza, a coloro che hanno vissuto momenti più bui dei miei e a coloro che si trovano in questi giorni in mezzo alla tempesta.
 


Non vi conosco, ma vi sono vicino con il cuore. Mio padre era una persona completamente sana e in buona salute e mai avremmo pensato che si fosse ammalato di Covid. Quando cominciano i primi sintomi (“grattarola” in gola, febbre leggera, stanchezza), pensi all’influenza stagionale. E perché non dovresti? Ma senti già che qualcosa nella tua mente si è insinuato, una piccola dose di dubbio che pian piano, silenziosamente, si espande. Cerchi di ignorare. Pensi che è sicuramente un errore. Non puoi credere che sia capitato al tuo papà. Pur non essendo certi fosse Covid, io e mia madre ci siamo subito isolati da lui, continuando la nostra vita di sempre chiusi in casa e limitando i contatti per sicurezza, mentre mio padre restava a letto.

Finché non è arrivata la conferma della sua positività. Forse anche alimentata da ciò che stava capitando in tutta Italia in quel periodo (ricordo i 700-800 morti al giorno), la piccola e innocua dose di dubbio si era trasformata improvvisamente in paura. La senti scivolare lentamente nel cuore. Cerchi di impedire che ti controlli convincendoti che andrà tutto bene. Ma ormai è tardi. La paura è arrivata al centro di controllo delle emozioni. E non c’è modo di mandarla via. Puoi non ascoltarla, puoi ignorarla, puoi soffocarla, puoi cantarci sopra, ma non la elimini. E sai bene che, finché non sarà tutto finito, lei farà parte di te, ogni giorno.

La paura diventa sempre più forte quando vedi tuo padre che non migliora e tua madre, che è sempre stata una donna forte, cominciare a perdere pezzi. Il cuore e la tua anima piangono quando vedi tuo padre spaventato a morte mentre viene portato in ospedale sorretto da un medico coperto dalla testa ai piedi da una tuta bianca. Vorresti abbracciarlo, ma non puoi. Vorresti dargli una carezza, ma non puoi. Vorresti rassicurarlo standogli vicino, ma non puoi. Ti fai forza cercando di comunicare positività, ma è difficile. 

Erano circa le ore 22 di sabato 28 novembre quando l’hanno portato via. L’ultima volta che vedevo il mio papà, ma io questo non lo sapevo ancora. Spaventati e addolorati, io e mia madre sapevamo che il ricovero era la scelta più giusta e che avrebbero dato a mio padre cure migliori. Ti fai forza con un abbraccio, consolando tua madre in lacrime. Non puoi esserne certo, ma ti convinci che andrà tutto bene. Questo è l’unico pensiero che ti permette di andare avanti nei giorni seguenti. E per qualche giorno sembra funzionare. Le notizie sono più o meno positive. Riusciamo a sentire ogni tanto mio padre al cellulare.



La preoccupazione a volte lascia spazio alla speranza e all’ottimismo, soprattutto quando ci comunicano che gli esami clinici sono a posto e la situazione è più o meno stabile. Ti senti meglio. Tua madre sta meglio. Torna il sorriso. Finché domenica 6 dicembre non scopri di essere anche tu positivo al virus. Sei preoccupato per te stesso, per tuo padre ma anche per tua madre che è sempre più spaventata. Cominciano così 10 giorni di isolamento totale. Se prima tu e tua madre potevate quantomeno darvi supporto morale vedendovi, ora anche questo vi è negato. Nel frattempo, tuo padre è sempre più debole, fa molta fatica a respirare e tua madre ha sempre più paura. E anche tu. Non potete darvi conforto a vicenda, solo tenere duro.

Quando dall’ospedale ti comunicano che devono spostare tuo padre in pre-intensiva, sei triste, ma fiducioso. Sai che ha bisogno di una terapia più forte per riprendere a respirare. Sabato 12 dicembre gli scrivi un messaggio cercando di comunicare più positività ed energia possibile. Gli mandi un abbraccio. Gli dici che tutti qui lo aspettano. Gli dici di stringere i denti e sconfiggere questo brutto mostro. E ti crolla il mondo addosso quando i medici ti dicono lo stesso giorno che tuo padre è in terapia intensiva intubato.

Apri subito whatsapp per vedere se è riuscito a leggere il tuo messaggio, ma la doppia spunta blu non c’è. Il cuore comincia a fare male. Senti le gambe che non reggono. Lo sguardo non riesci a toglierlo dal pavimento. Sei fermo. Immobile. Stordito. La paura, che ormai è diventata parte di te, viene accompagnata da ansia, terrore, dolore. E adesso? Cosa succederà? Cosa gli faranno? Quanto starà in terapia intensiva? Ancora domande che non hanno una risposta.

E così cominciano gli ultimi 10 giorni di buio più totale. Cerchi di andare avanti, di lavorare un po', ma la mente è distratta. Non riesci a concentrarti. L’unica cosa che ti impedisce di impazzire è quel minimo di speranza che cerchi di captare ogni volta che i medici ti telefonano per aggiornarti. Ma hai paura. Hai paura di non ricevere buone notizie. Hai paura per tuo padre. Hai paura per tua madre. Passi le giornate ad aspettare le 17, orario che i medici dedicano a chiamare le famiglie. Inizi a friggere già dalle 16. Sai che si sta avvicinando l’ora in cui potresti ricevere brutte notizie. E quando senti il cellulare di tua madre squillare al piano sotto, il cuore ti arriva in un secondo fino in gola. Cosa le staranno dicendo? Saranno buone notizie? Ti accorgi che stai tremando dalla tensione. Per scaricarla cammini su e giù, consumando il pavimento finché non senti tua madre che ti chiama per aggiornarti.

Non sono buone notizie. La situazione è grave, ma stabile. Ormai hai capito che devi solo aspettare. Ma stai male. Stai male a vedere tua madre in quello stato. Non poter abbracciarla per darle un po' di conforto. Non poter parlare con lei. Fa male. E’ straziante. Ma devi tenere duro, non hai altre alternative. L’unico sollievo ti viene dato dalla possibilità di registrare dei messaggi via whatsapp da inviare al tablet dell’ospedale così che possano far sentire a tuo padre la tua voce. Mentre registri, cerchi di farti forza, ma le lacrime hanno il sopravvento. Gli dici che gli vuoi bene. Che lo aspetti. Che avete ancora tante birre da bere assieme. E speri che, nonostante la sedazione, lui riesca comunque a sentire la tua voce. Lo speri davvero. Ma giorno dopo giorno di non miglioramenti, anche la speranza comincia a indebolirsi. Nel frattempo, puoi tornare ad abbracciare tua madre dopo essere risultato negativo al secondo tampone. Non hai mai abbracciato tua madre così. Lei scoppia in lacrime e ti dice “mi sei mancato tanto”. Ti si stringe il cuore.

Nonostante la situazione molto difficile e mentalmente spossante, poter stare di nuovo accanto a tua madre rende le cose più sopportabili. Ora puoi mangiare con lei, e sei contento nel vedere che ha ripreso l’appetito e dorme un po' di più. Ma la paura rimane molto alta. Quando è l’ora della chiamata, cominci a capire che non tutti i medici hanno la stessa sensibilità nel dire le cose. Alcuni sono più crudi, altri più teneri. Ovviamente ogni giorno speri di parlare con quelli più teneri, ma ti devi accontentare di chi è di turno. Ti senti più leggero quando lunedì 21 dicembre ti comunicano che tuo padre ha ripreso a respirare in maniera autonoma, seppur in percentuale estremamente bassa. C’è un minimo di ottimismo nell’aria. Ci aspetterà un percorso molto lungo e difficile ma potrai stargli di nuovo accanto.

Finché il giorno dopo non senti un pugnale trafiggerti il cuore e l’anima alle parole “Non c’è più niente da fare”. Il mondo si ferma. Il tempo si ferma. Il tuo respiro si ferma. Guardi il vuoto. Smetti di pensare. Non riesci a parlare. Annuite in lacrime quando vi chiedono “Volete vederlo un’ultima volta?”. Un’ immagine che non mi toglierò mai dalla testa: mio padre intubato su un letto d’ospedale. Da solo. Senza la sua famiglia. Senza nessuno che gli abbia fatto una carezza o raccontato una storia. Senza nessuno che lo abbia tenuto per mano. Senza nessuno che gli abbia dato un bacio sulla fronte per augurargli buon viaggio. La video telefonata si chiude con “Vi chiamerò in giornata quando sarà finita”.

Erano le ore 12.30. Sei ore di incubo. Sei ore di pianti. Sei ore in cui senti tremare ogni singolo muscolo del tuo corpo. Sei ore in cui anche il semplice gesto di prendere un bicchiere d’acqua ti sembra come sollevare una montagna. Sei ore di attesa straziante. Sei ore eterne. Finché alle 18.30 squilla il telefono e senti le parole che mai avresti voluto sentire “Andrea ci ha lasciati”. E fuori è buio. E anche il cielo piange.

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