I segreti del pastore Ignazio tra le montagne del Friuli

Arrivato dalla Sardegna, vive con il suo gregge a Pradis di Sopra

È semplicemente Ignazio, per tutti. Non serve aggiungere altro: «Basta e avanza». Il cognome, Dore, è soltanto un impiccio burocratico di cui farebbe volentieri a meno. Ci tiene invece a completare la sua identità con una frase che lega insieme passato, presente e futuro: «Sono Ignazio, pastore sardo sulle montagne del Friuli». È questo il suo biglietto da visita.

La bandiera della Sardegna, che sventola innalzata sull’improvvisato pennone, è simbolo di radici forti: «Ora, però, da qui non mi muoverò più. Quassù c’è il paradiso. Adesso ho perfino la televisione, perché qualche notizia non guasta mai, e il telefonino per i contatti». Per rafforzare la scelta dell’ultima meta, ha introdotto qualche parola di friulano nel suo linguaggio denso di cadenze della terra natia.

Destinazione Friuli.

Arrivò una decina di anni fa da Bortigali, paesino della provincia di Nuoro. Giunse a Pordenone per far visita alla sorella Francesca, emigrata al Nord. Si guardò un po’ in giro per capire se ci fosse spazio anche per lui: «Ormai avevo concluso un lungo ciclo».

La scintilla si accese dentro di sé in occasione di un pranzo in un agriturismo tra Barcis e Piancavallo: si fermò a osservare alcune pecore e fu colto da nostalgia. Gli animali erano accuditi un po’ alla buona. Si sentiva l’assenza di un pastore che li governasse. Bastavano quattro soldi e quelle pecore sarebbero state sue. «Riuscii in breve tempo a costituire una piccola società – ricorda Ignazio – per acquisire l’intero gregge. Io, squattrinato, mi proposi come socio lavoratore».

Ebbe così inizio l’avventura dell’azienda Girani, di cui Ignazio è il factotum. L’attività si trasferì a Pradis di Sopra, in comune di Clauzetto, dove nel tempo si è allargata. Per arrivarci, si sale lungo il versante nord-ovest del monte Pala, che domina la vallata, fino a toccare quota 850 metri della borgata Orton, dov’è stata presa in affitto dal Comune una grande stalla con annesse alcune stanze: un po’ di spazio adibito alla privacy, una sala da pranzo per accogliere gli amici, un piccolo caseificio e un locale per la vendita dei prodotti.

I pascoli per le duecento pecore, all’incirca dieci ettari recintati, gli sono stati messi a disposizione da alcuni privati convinti a non lasciare i terreni in condizioni di abbandono. Del resto, dove non c’è l’uomo, la natura fa il suo corso. Senza la presenza di Ignazio, probabilmente l’impronta del paesaggio sarebbe ben diversa, magari segnata dall’avanzata impetuosa del bosco. Oggi ci sono cura e vita.

Storie di un altro mondo.

Ignazio cominciò a lavorare a dodici anni. «Non ero proprio fatto per scaldare i banchi della scuola – ridacchia – così mi sono fermato alla seconda». Che cosa, alla seconda media? «No, elementare. Inutile, se non va, non va». I genitori lo affidarono allo zio Antonio affinché gli insegnasse il mestiere del pastore. Il suo racconto ripercorre un po’ alla lontana l’esperienza di Gavino Ledda, l’autore di Padre Padrone.

Però, in questo caso, i metodi educativi non furono gli stessi narrati nel romanzo, assai barbari, perché lo zio ebbe amorevole cura del nipote. Ma la vita nel cuore della Barbagia di Ledda, una terra selvaggia per uomini duri, rispecchiava quella vissuta da Ignazio, tremenda per un ragazzino.

«Eravamo lontani dal paese, praticamente ai margini di una vita umana. Occorrevano giorni e giorni per arrivare al primo centro abitato. Non c’erano strade, quindi utilizzavamo soltanto il cavallo.

La patente non ce l’ho, perché non mi è mai servita. Si dormiva all’aperto – ricorda – o nelle grotte, al freddo e al gelo per lunghi periodi. Vivevamo di cacciagione, di verdure coltivate in un piccolo orto curato un po’ alla buona, e di erbe selvatiche. In quei posti, lontani da Dio e dagli uomini, vissi una ventina d’anni, fatta salva la sola parentesi di quindici mesi per il servizio militare.

Imparai tutto del mio lavoro. Altroché oggi, con ogni tipo di comodità: non sono costretto a gestire la transumanza del gregge, perché ho pascoli fissi; dormo sotto un tetto, anche se spesso prendo il giaccone e me ne vado nel bosco per non dimenticare le sue “voci”, sempre diverse, che interrompono i lunghi silenzi; e quando apro la porta della camera sono direttamente nella stalla, pronto per le mungiture».

Ignazio non lo dice, ma a lui sembra di vivere un’esperienza di pastore a cinque stelle, rispetto ai tempi dell’adolescenza, e più in là ancora negli anni, fino a quando lo zio ormai ultra-novantenne gettò la spugna, stanco del lavoro, e rientrò stabilmente in paese, «dove visse fino all’età di 107 anni; evidentemente il nostro lavoro allunga la vita».

Solitudine e silenzi.

«Ma no, non pesano queste situazioni – avverte Ignazio – così lontane dalla vita frenetica delle città. La Natura ti entra dentro, ti plasma e diventi un tutt’uno. Apprendi un linguaggio che non si impara a scuola. E, poi, nel corso della giornata qualche saluto non manca mai».

Al limite, basta che metta in moto la sua Ape 50 azzurra, che lui chiama “la cornuta” per le corna di daino che ha fissato sul tettuccio, per andare in cerca di amici ai quali raccontare le sue storie di vita. D’altra parte, è dura vivere da soli in mezzo alle montagne. Di tanto in tanto confida le sue avventure, come quella un po’ romanzata di una donna misteriosa, che aveva incontrato durante una sagra in paese: «Ci ho ballato insieme e l’ho sfidata a vivere di pastorizia, possibilmente con me».

Qualche giorno dopo, lei si era presentata davanti alla sua casa con le valigie in mano: «Sono qui, proviamoci». Ignazio aveva toccato il cielo con un dito: «Era la mia Principessa». Dopo una settimana se n’era già andata: «È dura, non ce la faccio».

Nell’intera vallata, lui è ormai un’istituzione. I giudizi sulla passione che mette nel suo lavoro convergono: «Fa dei prodotti di una bontà unica, provare per credere. Ha mani d'oro». Dal latte delle pecore ricava tre tipi particolari di formaggio: crudo, semi-cotto e cotto.

Decide lui di giorno in giorno che specialità produrre: non si spinge più in là di una decina di forme al dì. Poi passa alle ricotte fresche: ne fa una trentina. Il quantitativo lavorato lo piazza in un batter d’occhio: «D’estate, i clienti arrivano anche dall’estero. Portano via tutto. Comprano e prenotano per l’anno successivo». Così le scorte fanno fatica ad accumularsi; salva qualcosa per l’inverno, quando le pecore sono “in secca”.

Il segreto di Ignazio.

Attorno alla lavorazione del latte, si sostiene che ruoti il segreto che è sulla bocca di tutti. L’ha appreso dallo zio, ma non ha nessuna intenzione di rivelarlo ad altri: «Lo farò quando non sarò più in grado di trasformare il latte come Dio comanda.

Devo però fidarmi della persona alla quale lo svelerò». Il privilegio toccherà senz’altro a uno degli “allievi” che lo seguono nella stagione buona, perché Ignazio fa della sua casa un laboratorio di apprendistato per tre o quattro persone. In quell’occasione diventa un maestro esigente: «Suvvia, non si tratta di fare un prodotto qualsiasi, ci vogliono capacità e testa, non si può improvvisare».

Dentro il formaggio e la ricotta c’è di tutto: la bontà del pascolo, il sapore delle erbe, lo spirito di libertà degli animali, la lentezza dei ritmi della montagna, l’aria fine, persino il dialetto sardo con qualche sfumatura di friulano. Ma non bastano queste caratteristiche per costruire un segreto che dura da secoli.

Non è una questione di ingredienti. E allora? Ignazio segue il ragionamento e azzarda qualche suggerimento: «Ogni pecora dà lo stesso latte, ci vuole invece mano per lavorarlo... e io ne ho due! Dai, dai, soltanto io so fare quelle cose. Verrà il giorno che lo spiegherò a una persona di mia fiducia». Intanto, resta aggrappato ai silenzi del suo microcosmo, che è Pradis: «Stia attento a quello che scrive, Pradis di Sopra, eh... non si allarghi». Così Ignazio riprende a narrare le storie di un pastore semplice, che conosce le sue pecore a una a una, «perché sono una diversa dall’altra».

Le giornate sono scandite dallo stesso ritmo. Sveglia alle 2 del mattino per chiamare a raccolta le pecore per la mungitura: «Le ho istruite, si mettono in coda da sole».

Questa operazione è praticata ormai meccanicamente. Poi si dedica anima e corpo alla lavorazione del latte: 130 litri al giorno. La seconda mungitura avviene il pomeriggio. Dopodiché, anche lui stacca. Ignazio racconta, spiega, si diverte. Improvvisamente si fa serio: «Un buon pastore si vede nel momento in cui la pecora partorisce, perché si deve trasformare in psicologo, veterinario e prete.

Deve entrare in confidenza con l’animale, soprattutto nei momenti di difficoltà, altrimenti si rischia di perdere mamma e piccolo. Ho assistito anche quest’anno a una cinquantina di parti in un paio di giorni. Posso vantarmi di aver fatto esperienza. Se serve, pratico il taglio cesareo». Ignazio conclude la chiacchierata a suo modo. Sbircia nel taccuino disordinato degli appunti, quasi a voler raccomandare fedeltà nella trascrizione del racconto. L’arrivederci, giunti sull’uscio di casa, avviene con una frase che esprime un senso di fiducia, senza bisogno di aggiungere altro: «Capito mi hai».
 

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