Il calvario di Sandra: sola dopo la fuga da un marito violento
PORDENONE. «Dietro un gesto disperato c’è sempre una storia di disperazione. E io credo di aver raggiunto il limite».
Inizia così il racconto di Sandra, nome di fantasia, una donna che vive nell’hinterland pordenonese, separata, due figli, vittima – come tante – di violenze fisiche, psicologiche e ora, anche economiche, se vogliamo definire in questo modo il mancato versamento da parte del coniuge imprenditore dell’assegno di mantenimento che pure il tribunale ha disposto.
Sandra si sente sola, vittima del sistema, dai servizi sociali a quelli legali, che anziché darle sostegno si sono trasformati in un altro ostacolo. «Avevo deciso di separarmi quattro anni fa – spiega –, una decisione maturata con fatica e dolore. Ho tentato di convincere mio marito a percorrere la via della separazione consensuale, ma non c’è stato verso.
E comunque, da quel momento, la mia vita in famiglia è peggiorata. Se prima andava male, poi è andata peggio, come i referti del pronto soccorso possono dimostrare». Un incubo da cui Sandra ha deciso di uscire e preso il coraggio tra le mani, due anni dopo inizia il percorso della separazione giudiziale. E si avvia verso un altro calvario, fatto di botte, di piccoli e grandi ricatti, di vessazioni di varia natura, anche economiche.
«Ho dato ascolto a chi mi ha detto: non tacere, parla, vai avanti... L’ho fatto, mi sono recata dai servizi sociali, ho fatto denuncia ai carabinieri... Ho fatto tutto quel che mi è stato consigliato di fare». Ma gli esiti sono altra cosa rispetto alle aspettative.
Dal tribunale in cui si reca per la separazione, Sandra esce con un assegno di mantenimento per sé e per i figli e l’assegnazione della casa. In quella casa continua ad abitare, ma dei soldi nemmeno l’ombra. «Non ho il gas, non ho il frigorifero... Non posso pagare le bollette... Non sono nelle condizioni di sopravvivere».
E i figli? Il maggiore sta con il padre, la più piccola con i genitori di Sandra. Sull’affidamento definitivo nulla si sa ancora. «Mio marito mi aveva avvertita: “I ragazzi non staranno con me, ma sicuramente non vivranno con te”». E quell’avvertimento, dal sapore di una maledizione, si sta avverrando.
L’avvocato che rappresenta Sandra le spiega che i tempi della giustizia non sono celeri, che occorre avere pazienza. Il punto è che Sandra, di pazienza, non ne ha più. Se n’è andata insieme alla speranza che qualcosa potesse cambiare, che dopo averla avuta la pazienza, e la sopportazione, per tanti anni, grazie al gesto di coraggio di voler porre fine a quel quotidiano di violenza e vessazioni, finalmente avrebbe potuto voltare pagina, ricominciare. Invece da questa vicenda Sandra rischia di venire schiacciata, ormai troppo stanca, sfinita, sfiduciata per aver voglia di combattere ancora. È anche depressa Sandra, con una diagnosi che lega il suo malessere alle angherie subite.
«Il racconto della mia storia è l’ultima chance che mi rimane». E sa di ultimo appello, di ultimo chiodo al quale aggrapparsi per evitare di precipitare. È un grido d’aiuto da chi ha, ormai, solo un filo di voce, al quale rispondere non tanto o non solo con il “megafono” che può rappresentare questo articolo, quanto con i fatti da parte di chi ha il potere, se vuole esercitarlo, di “fare” qualcosa.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Messaggero Veneto