“Il formaggio e i vermi”: la forza del ragionamento e del dissenso

Ci sono storie che appaiono fortemente legate all’epoca in cui sono avvenute e che possiedono, invece, un valore assoluto che va ben al di là delle loro stesse dimensioni temporali e spaziali per diventare apolo­ghi validi in ogni epoca e in ogni luogo. Questo è anche il caso de
Il formaggio e i vermi
, di Carlo Ginzburg, libro nato come semplice – pur se approfondita- ricerca storica e diventato in pochi anni un best-seller internazionale che e stato tradotto in una quindicina di lingue e sul quale sono stati organizzati e svolti diversi convegni internazio­nali, anche negli Stati Uniti.


La vicenda, in un primo e più superficiale livello di lettura, è ab­bastanza semplice: riguarda la vita e i processi di Domenico Scandella, soprannominato “Menocchio”, che fu giustiziato sul rogo, per ordine del Santo Uffizio, a Pordenone il 6 luglio 1601. Era nato a Montereale, in Valcellina, nel 1532 e lì visse per quasi tutta la vita. Era spo­sato, aveva sette figli, mentre altri quattro gli erano morti. Dal punto di vista economico non se la passava male, anche perché, accanto alla sua attività principale di mugnaio, faceva svariati altri mestieri. Si era in piena Controriforma e il 28 settembre 1583, quando aveva più di cinquant’anni, fu denunciato per la prima volta al Santo Uffizio per avere cercato di diffondere le sue opinioni, argomentandole, sul mon­do e su Dio.


Quasi tutti i testimoni al processo non gli furono ostili; al più la­sciarono trasparire una qualche disapprovazione. In realtà ai conta­dini di Montereale i suoi discorsi non apparivano del tutto estranei al loro modo di pensare. Ma comunque i giudici si convinsero subito che Menocchio si era proposto come maestro di dottrine eterodosse. Anche lui stesso, in pratica, lo confermò dicendo che era «in cervello, non mato» aggiungendo che «è vero che io ho detto che se non havesse pau­ra della giustitia parlerebbe tanto che farebbe stupire». In più Menocchio era convinto dell’originalità delle sue idee e, quindi, della forza della sua mente: «Non ho mai praticato con alcuno che fusse heretico, ma io ho il cervel sutil, et ho voluto cercar le cose alte et che non sape­va».


E poi c’era l’aspetto più rivoluzionario perché il vecchio mugnaio approfittò del processo per esprimere a pubblici ufficiali quello che da tempo ripeteva in paese e che, cioè, era «assai contra li superiori delle loro male opere», insistendo soprattutto su l’oppressione esercitata dai ricchi sui poveri attraverso l’uso, nei tribunali, di una lingua incom­prensibile come il latino. Una visione incredibilmente attuale ancora oggi, in un mondo in cui troppo spesso non la giustizia, ma la sua am­ministrazione sembra piegarsi ai voleri dei più ricchi e dei più colti.

E in più, oltre a rendere esplicita la sua opposizione a un mondo corrotto e a lui del tutto lontano, a una classe religioso-politica che dei subalterni sapeva riconoscere soltanto i doveri e non i più elementari diritti, Menocchio si inoltra in un altro campo che era vietato a colo­ro che non trovavano posto nelle gerarchie ecclesiastiche, quello della costruzione di una vera e propria cosmogonia. «Io ho detto – afferma – che... tutto era un caos, cioè terra, aere, aqua et fuogo insieme; et quel volume, andando così fece una massa, aponto come si fa il formazo nel latte, et in quel deventorno vermi, et quelli furno li angeli...».

Menocchio, insomma, era un pericoloso sovversivo anche e soprat­tutto perché il desiderio di «cercar le cose alte» continuava ad apparirgli legittimo e, secondo lui, doveva essere alla portata di tutti perché era assurdo accettare una cultura privilegio dei chierici, che volevano tenere per sé il monopolio di una conoscenza che si poteva comprare per «dai soldi» sulle bancarelle dei librai di Venezia.

Menocchio fu dapprima condannato a una dura pena detentiva, ma dopo due anni di carcere la pena gli venne parzialmente cancella­ta, e poté far ritorno a Montereale. Però il suo spirito non poteva cam­biare e così fu nuovamente denunciato nel 1599, processato, e infine condannato a morte sul rogo come eretico. A dire il vero, l’inquisitore friulano era esitante e scrisse a Roma per esprimere i propri dubbi, ma la risposta fu chiarissima: «Le dico per ordine della Santità di Nostro Signore ch’ella non manchi di procedere con quella diligenza che ri­cerca la gravita della causa, a ciò che non vada impunito de’ suoi horrendi et essecrandi eccessi, ma co ’l debito et rigoroso castigo sia essempio agli altri in coteste parti...».

Si tratta di una rigidità che molto probabilmente e stata dovuta a una serie di concause. Intanto c’era la determinazione della Chiesa ro­mana di rispondere alla Riforma protestante senza ammettere alcun errore, ma anzi riaffermando la propria infallibilità e irrigidendo ul­teriormente la propria severità di giudizio, anche secolare, nei confronti dei dissidenti. Poi la necessità, da parte delle classi dominanti, di recuperare, anche ideologicamente, contadini e plebi urbane che, trasferendo gli ideali evangelici di libertà e uguaglianza diffusi dalla Rifor­ma protestante dal terreno religioso a quello politico, minacciavano di sottrarsi a ogni forma di controllo dall’alto, mantenendo, anzi sottoli­neando, le distanze sociali. E influì anche l’invenzione della stampa a caratteri mobili che aveva reso accessibili a moltissimi dei testi che prima restavano chiusi soltanto nelle ricche biblioteche dei castelli nobiliari e dei conventi religiosi.

Menocchio è uno di quegli uomini liberi che si alzarono – e si al­zano ancora oggi, consapevoli del prezzo che dovranno pagare – davanti all’ortodossia del momento, affermando il loro diritto all’iden­tità, e di conseguenza alla diversità, mettendo in atto coraggiose scelte di libertà. Di lui gli archivi dell’inquisizione ci hanno permesso di sapere molte cose, di tanti altri come lui non sappiamo nulla. Perché se la vicenda di Menocchio è tornata alla luce, lo dobbiamo al modo di raccontare la storia adottato da Carlo Ginzburg, al quale non interessa trarre dalla sua ricerca né una dissertazione sterilmente erudita, né un’altrettanto arida caccia del morboso e del sensazionale.

Ginzburg e convinto, infatti, come canta anche Francesco De Gregori, che «la storia siamo noi; nessuno si senta escluso». Che il divenire del mondo dipende anche dagli uomini normali e non soltanto dai cosiddetti grandi, che quando si arriva alla realtà quoti­diana meglio si riesce a decifrare il passato e a scorgere le connessio­ni e le cesure con il presente. E così, attraverso la sua esemplare ricerca e il suo scrivere vivace, l’autore recupera un frammento perduto del passato che non soltanto si inserisce «in una sottile, contorta, ma ben netta linea di sviluppo che arriva fino a noi», ma la illumina, la avvicina, fa capire che i germi sparsi da Menocchio non sono stati bruciati dal rogo, ma sono arrivati fino a noi, anche se spesso non ce ne rendiamo conto.

A leggere le dense pagine scritte da Ginzburg, tornano spontaneamente e prepotentemente alla memoria altri esempi di questo tipo che la storia ci offre presentandoci le vicende di persone più famose di Me­nocchio che non facevano alcun male, ma incutevano molta paura al potere costituito. Due esempi su tutti sono quelli di Giordano Bruno e di Galileo Galilei.

Il primo costruisce una propria nuova immagine della natura in netta antitesi con quella aristotelica e giunge a definire il mondo come una sorta di edificio assai grande e complesso, ma realizzato con ma­teriali relativamente semplici e, soprattutto, secondo architetture deci­frabili. La sua lettura della realtà lo porta, dunque, a posizioni materialistiche e atomistiche, ma soprattutto alla tesi della fondamentale omogeneità del mondo che sarà determinante negli imminenti svilup­pi della rivoluzione scientifica galileiana. Quella copernicana aveva già fatto sentire i suoi primi sconvolgenti segnali e Bruno era stato uno dei pochi a percepirne immediatamente la portata dirompente sia sul piano del principio sia – ben più importante per gli sviluppi futuri del mondo – su quello della metodologia di indagine. Ma idealmente egli addirittura supera Copernico non ammettendo né il vecchio geo­centrismo, né il nuovo eliocentrismo, ma postulando l’esistenza di un universo senza centri né gerarchie perché lo considera «unitario e in­finito».

La rotta di collisione con la Chiesa appare, dunque, inevitabile e il suo destino è segnato: le varie delazioni servono soltanto a trovare una causa occasionale per destinarlo al rogo di Campo de’ fiori, a Roma, sul quale sale un po’ prima di Menocchio, il 17 febbraio del 1600, senza aver minimamente perduto quegli «eroici furori» cui allude nel­la sua opera omonima. Eppure è con lui che la scienza comincia a stac­carsi definitivamente dalla filosofia e l’accelerazione in questo percor­so è tale che meno di quarant’anni dopo la separazione è già netta e irreversibile. La data della cesura definitiva coincide con quella che, invece, secondo le gerarchie ecclesiastiche dell’epoca, avrebbe dovuto significare il rispettoso e ossequiente rientro all’ovile della scienza: si identifica con l’abiura pronunciata da Galileo Galilei davanti al so­lito Santo Uffizio che aveva costretto lo scienziato pisano a sconfessare tutto quello che aveva fino ad allora sostenuto, pur borbottando sotto­voce – almeno così sostiene la tradizione – quel «E pur si muove» riferito alla Terra non più centro dell’universo, ma pianeta tra i tanti.

È stato un atteggiamento, quello di Galilei, non soltanto diverso, ma addirittura diametralmente opposto rispetto a quello di Giordano Bruno. Tanto il filosofo si scagliò contro i suoi accusatori, tanto lo scien­ziato tentò di discolparsi; tanto Bruno fu rigido nel difendere le sue posizioni, tanto Galilei fu disponibile a dire tutto quello che gli altri si aspettavano di sentirgli dire per affossare la sua idea dell’universo. Però, alla fine, entrambi ottennero grandi risultati: la figura e le idee di Bruno acquistarono ancora maggiore peso dal rogo su cui fu co­stretto a salire; Galilei poté continuare i suoi studi e lasciare ai suoi di­scepoli altre grandissime intuizioni e conquiste. E in entrambi i casi sul Santo Uffizio si stamparono delle colpe incancellabili delle quali sol­tanto in tempi recenti si è inteso fare ammenda.

Se per Bruno e Galilei, però, il comportamento delle gerarchie ecclesiastiche poteva essere comprensibile, per l’autorevolezza e la noto­rietà dei teorici eresiarchi, più difficile è capire il perché si sia deciso di infierire su Menocchio, il mugnaio di Montereale, personaggio di un certo spicco nel proprio paese, ma del tutto insignificante in un pano­rama più vasto. E, in più, ormai avanti con gli anni. C’è una sola ma­niera per spiegare questo infierire impietoso della massima autorità ecclesiastica su un uomo che – ammesso fosse eretico – non poteva essere seriamente considerato come un pericolo diretto per la Chiesa e la sua dottrina. È quella di valutarne appieno le potenzialità come pericolo indiretto, come esempio che avrebbe potuto spargere germi, quelli sì, pericolosissimi, non riferiti alle idee, ma al comportamento.

Domenico Scandella, infatti, non soltanto sapeva leggere, ma ad­dirittura comperava libri, li leggeva, ci ragionava sopra e poi parlava con gli altri dei suoi pensieri. Importanti non erano le conclusioni alle quali arrivava; fondamentale, nel decidere la sua persecuzione, era pro­prio l’atto del leggere, del ragionare e del parlare. E, quindi, di arri­vare quasi inevitabilmente a dover usare un monosillabo piccolo, ma dalla devastante potenza: il “no”, l’unica vera arma a disposizione dei poveri e dei vessati.

Il “no”, infatti, non è quel monosillabo che istintivamente viene considerato come antipatico simbolo della negazione, ma è, invece, parola bellissima perché caposaldo e simbolo della libertà, base fon­dante non soltanto di ogni vera democrazia, ma anche dello stesso bene; perché permette il rifiuto di ragione e di coscienza, perché rende ridi­coli quegli alibi che troppe volte nella storia del ventesimo secolo ab­biamo sentito dal banco degli accusati dove cerano persone che si di­fendevano rispondendo vacuamente: «Non ho fatto altro che eseguire gli ordini».

E quello di Menocchio era un “no” ancora più pericoloso, se sotto­valutato e non esemplarmente punito, perché era usato senza violen­za, ma con la forza della pacatezza e del ragionamento; non di nascosto, ma in aperte discussioni sia con la gente sia con i notabili e i po­tenti. Il “no” di Menocchio rappresentava un rifiuto educato, un po’ simile a quello che qualche secolo dopo Herman Melville metterà in bocca al suo Bartleby, quel «preferirei di no» che, ripetuto costante­mente, può diventare destabilizzante ancor più di una rivolta in armi perché insinua in tutti, anche nei più umili, che la storia – come sot­tolinea Ginzburg – sia fatta anche dagli umili non meno che dai po­tenti.

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