Il grande riscatto senza anima
Silvano Pagani, da lassù, sta sorridendo. Lui, emigrato in Argentina, ritornato in Friuli, aveva aperto in via Baldissera, una piccola bottega artigiana dalla cui soglia vedeva sfilare gli studenti che manifestavano per l’università. Quel corteo era anche suo. Era valsa la pena attaccare manifesti, raccogliere firme, passare le serate a far cartelli e assemblee.
Se 40 anni fa, aveste chiesto a chiunque quale fosse la cosa più importante da ottenere per il Friuli e per Udine, la risposta sarebbe stata scontata: l’Università. Al secondo posto il teatro.
Oggi non solo le due entità esistono e prosperano, ma la prima segna persino il sorpasso, per numero d’iscritti, con Trieste. È l’ultima ripresa di un incontro pugilistico che, sin dagli anni ’60, ha visto sul ring due posizioni opposte, con la classe politica giuliana schierata su un “niet” di stampo sovietico, alla nascita dell’ateneo in Friuli e, successivamente, quando questo divenne impossibile, decisa ad affermare quella “non concorrenzialità”, che non significava rapporto dialettico, ma solo l’evitare con ogni mezzo, la crescita della realtà udinese.
La legge istitutiva dell’ “Università del Friuli” passò solo grazie all’onda emotiva, al debito umano e politico che l’Italia sentiva in quei giorni per questo territorio, da sempre dimenticato e sacrificato agli «interessi superiori della Nazione». Non si trattò solo di un atto legislativo, fu l’affermare nero su bianco che l’università nasceva con uno scopo ben preciso e statutario: mettersi al servizio dello sviluppo economico, sociale e culturale di un popolo, quello friulano, cui si riconosceva l’originalità linguistica e storica: l’identità.
E qui vedo lentamente spegnersi il sorriso di Pagani e degli altri artefici di questa conquista. Fra loro serpeggia il dubbio: «Abbiamo battuto Trieste per la seconda volta, ma è questo che volevamo o che piuttosto che l’università friulana fosse al servizio della sua gente, un volano di progresso per i nostri giovani, una fucina di idee per l’autonomia e la specialità?» Risposta difficile.
Certo in tutti questi anni gli iscritti sono cresciuti, tanti e di prestigio i riconoscimenti al lavoro svolto, alcune risultano eccellenze nazionali, ma è come se mancasse qualcosa. Un’anima forse, capace di tradurre in tesi di laurea, quella voglia di riscatto sociale per cui era nata e sognata, per cui la gioventù era scesa in piazza, le firme raccolte nelle tende, tra le macerie.
Scriveva don Placereani all’indomani del terremoto: «La struttura dell’insegnamento scolastico e della formazione culturale è fatta seguendo gli schemi italiani. Si tratta di schemi che non favoriscono neanche il bilinguismo, ma che hanno lo scopo la sostituzione diretta di quelli friulani e così colonizzano culturalmente il Friuli». Che beffa sarebbe, aver portato tra le mura un cavallo di Troia.
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