Il medico che gestisce l’emergenza Covid a Pordenone: «Lottiamo per arginare i focolai ma la paura s’è trasformata in arroganza»

PORDENONE. Dove puoi trovare, la domenica mattina alle 9, un medico che ama la montagna, suona il violoncello, cerca la verità nelle autopsie e di notte studia psicologia cognitiva comportamentale a indirizzo clinico e forense? Al lavoro, naturalmente.
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Già perché quel medico, da marzo scorso, gestisce anche l’emergenza Covid in provincia di Pordenone. Da capo del dipartimento di prevenzione dell’Azienda sanitaria Friuli occidentale. Anche se Lucio Bomben, 60 anni, la parola “capo” non vuole neanche sentirla pronunciare. «Meglio direttore, la gerarchia va bene in caso di guerra, quella vera, con gli spari. Qui è un altro tipo di guerra, l’ha visto lo spot della Germania?».
Quello dove si vince dal divano? Certo. Lei, però, sul divano è stato poco, quest’anno. Partiamo dall’inizio. Marzo 2020, il coronavirus entra nelle nostre vite e nelle vostre agende. Cosa ricorda di quei primi giorni?
«Eravamo in 152 e non sapevamo dove mettere le mani. Ci mancavano dati, dovevamo reimpostare le attività e il dipartimento, dargli un nuovo filo logico cercando di mantenere le normali attività di un dipartimento di prevenzione. Mano a mano che i problemi aumentavano dovevamo fare delle scelte: riconvertire tecnici di prevenzione, assistenti sanitari, dirigenti, levarli da lavori “normali” e metterli in linea Covid. Mai vissuta una situazione così, neanche nel 2008 con la Sars».
Come vi arrivavano i dati per i tracciamenti?
«Dai medici di base e dagli ospedali, al telefono. Poi la Regione ha attivato un database in cui sono confluiti gli esiti positivi dei tamponi. Da qui è partito il tracciamento: telefonavamo a casa dei poveri Cristi e cercavamo di capire. Abitudini, contatti stretti, persone conviventi e non conviventi, se fossero il caso 1 o il 2, 3 o 4 di un possibile focolaio».
Oggi, invece, col dilagare del contagio nella seconda ondata, tutto è cambiato. Ha ancora senso parlare di tracciamento, col virus palesemente fuori controllo?
«La seconda ondata ha triplicato i numeri che avevamo. Tra persone da seguire, fra positivi e contatti, quarantene e isolamenti fiduciari, abbiamo superato le 3.200 persone. Mi chiede se abbia ancora un senso il tracciamento. Sì che ce l’ha, dobbiamo riuscire a circoscrivere ogni focolaio, dare le opportune istruzioni. Facciamo sorveglianza e tracciamento a Pordenone al Bronx (il quartiere del cemento) e in via De Paoli, a Maniago e San Vito. Qui in città lavoriamo anche nei festivi e prefestivi. Nulla di nuovo, se ci pensate. La mitica peste di Milano, di manzoniana memoria, non presentava tante differenze nel modo di affrontarla: persone segregate a casa, cibo passato da pertugi delle finestre...».
Non proprio lo scenario dell’ultimo weekend nei centri cittadini.
«Una marea umana. Ma qui arriviamo ai massimi sistemi, ai valori in cui crediamo. Alla scelta tra salute e sicurezza, tra libertà ed economia. Salvaguardare tutte le aspettative delle persone è difficile. Lo sarebbe molto meno se di fronte alla scelta fra salute ed economia, libertà e restrizioni, si potesse aggiungere la parola “responsabilità”. Se ci fosse, il senso di responsabilità, ci renderemmo conto che tutto quello che facciamo ha una finalità. E prenderemmo in considerazione misure che potrebbero sembrare individualmente poco logiche, perché guarderemmo al bene collettivo. L’ha scritto bene Ian Mc Ewan, viviamo il periodo delle folle solitarie. Gruppi di persone che parlano fra loro, pensano le stesse cose e non riescono a concepire modi diversi di confrontarsi con l’altro, idee e proposte differenti».
Eppure l’atteggiamento della gente che trovavate nelle case, nei primi giorni di lotta al Covid, era diverso da quello di oggi. Mi dica se sbaglio.
«Allora c’erano paura, sconcerto, ignoranza. E oltre alla paura diffusa, c’era più rispetto per le regole e verso di noi, gli operatori sanitari. Eravamo riconosciuti, nel nostro mestiere. Sapevano che il nostro lavoro comportava il rischio di ammalarsi e che lo stavamo facendo senza un numero adeguato di dispositivi di protezione e brancolando nel buio con le terapie. Da maggio in poi, quando è calato il carico virale, in estate il “liberi tutti” inconscio e inconsapevole ha portato a un allentamento delle regole. Quando è ricominciato a partire tutto, da settembre a ottobre il raddoppio dei casi, da ottobre a novembre dieci volte tanti, abbiamo notato un radicale cambio di atteggiamento nelle persone. Più arroganza, meno rispetto, “Perché ci rompete?” “Dobbiamo lavorare” “Ancora con sta storia”. Operatrici mi raccontavano di essere state trattate male. Siamo arrivati alle segnalazioni in procura, anche se tengo a ribadire che la maggioranza delle persone, su questo territorio, è corretta, educata e paziente anche con le nostre mancanze. Abbiamo ricevuto anche mail di ringraziamento per la professionalità e la delicatezza con cui abbiamo affrontato alcune situazioni».
Mai venuta voglia di mollare tutto?
«Di brutti periodi ce ne sono stati. Penso alla casa di riposo di Castions, ai 19 morti che mi pesano ancora. Abbiamo fatto tutto il possibile, non c’è stato verso. Il problema principale di molte case di riposo era di natura organizzativa, di fronte a una malattia nuova. Non sapevano come comportarsi. Il grosso lavoro è stato rivedere tutta l’organizzazione all’interno, i percorsi sporchi e quelli puliti, l’isolamento degli ospiti, l’organizzazione dei turni. A Castions e altrove qualcosa è andato storto anche perché il nostro territorio è pieno di strutture non adeguate, costruite 50-80 anni fa e adattate a case di riposo, non nate per questo scopo».
Anche nei ritardi sui tamponi e sugli svincoli delle persone negativizzate qualcosa è andato storto, me lo lasci dire.
«Guardi, come le dicevo eravamo in 152 e abbiamo ricevuto rinforzi lo scorso 30 novembre: tre militari, 8 tra medici infermieri e assistenti sanitari della protezione civile e due amministrativi della Regione. È stata anche esternalizzata la gestione del Deposito Giordani per la parte amministrativa ed esecutiva dei tamponi e ciò ci ha consentito di raddoppiare sia i tracciamenti che gli svincoli. Il problema dei ritardi sui tamponi rimane per un semplice motivo: Pordenone non è autosufficiente. Ricorriamo all’aiuto di Udine. Il nostro laboratorio ha un macchinario che ne processa circa 600 al giorno, gli altri, circa un terzo, li devono fare a Udine e Trieste, dove hanno macchinari più efficaci. Se capiti fra quelli processati in ospedale a Pordenone il giorno dopo hai la risposta, se invece sei fra quelli di fuori magari ce ne vogliono tre. Ora, comunque, ci danno indirettamente una mano i privati, che da circa un mese sono autorizzati a inserire tutti i loro dati nel database in cui “peschiamo” i positivi».
E mentre il virus evolve, si sviluppano anche vaccini e cure. Fiducioso?
«Penso che in una società in cui tutti sono competenti senza esserlo, spesso siamo costretti a prendere decisioni in tempi rapidissimi e certe volte sbagliamo, come in tutte le situazioni di emergenza. Viviamo così da nove mesi e la penso come Fauci: durerà fino a Natale 2021, quando riusciremo a convivere con questo virus. Del resto ogni anno 1,7 milioni di persone contraggono l’Hiv, abbiamo dovuto accettarlo ed evitare i comportamenti a rischio. Ogni 10-12 anni aspettiamoci una malattia pandemica, i virus evolvono anche loro, sono dei geni. Quanto alle cure il Consiglio di Stato non può avallare l’uso dell’idrossiclorochina solo perché non ci sono studi che di cono che fa male. Ogni medico sa che non si può somministrare per gli effetti psicotici e sul cuore, specie su chi soffre di patologie cardiache».
Eppure pare che a Trump l’abbiano data.
«Con Trump hanno usato la terapia monoclonale, che si basa sugli anticorpi specifici contro il Covid prelevati dal plasma delle persone guarite. Funziona solo nello stato iniziale del contagio e ha un difetto: costi insostenibili per un utilizzo generale. Diciamo che lui è stato “fortunato”».
Torniamo a noi gente qualunque. Cosa comporterà l’imminente binomio Covid-influenza stagionale? Come impatterà sugli ospedali già saturi, a livello di posti letto?
«Ci attendiamo per metà gennaio gli effetti dell’influenza e dell’immaginabile incremento dei casi positivi da Covid, vista la libertà di fatto concessa alla vigilia di queste Feste. Nel contempo partirà la campagna vaccinale. Ce la faremo? Che giorni vivremo? Difficile dirlo ora. Affronteremo un problema alla volta. Le uniche certezze le ho raggiunte sulle persone da ringraziare: Ornella, la mia compagna; i miei figli, che nonostante tutto mi sopportano ancora; i miei colleghi di lavoro, bravissimi, macchine da guerra. Non so se con altre persone saremmo riusciti a fare ciò che facciamo adesso e mi rende fiero il fatto che il vicegovernatore Riccardi e lo staff della direzione Salute ci abbiano definiti più di una volta i migliori in regione».
Squilla il telefono: un’altra emergenza. E un’altra occasione per cercare di dimostrarlo.
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