Il primario di terapia intensiva: «Noi medici in trincea, lavorare bardati con scafandri e mascherine è massacrante»

Il dirigente dell’ospedale spiega l’impegno di medici e infermieri nel fronteggiare l’emergenza. «Si lavora moltissimo, abbiamo dovuto definire una sosta ogni 3 ore per consentire a medici e infermieri di uscire dal reparto e fermarsi un attimo, perché lavorare con i dispositivi di isolamento è massacrante»

Dottor De Monte, quanti posti letto sono disponibili oggi in terapia intensiva al Santa Maria della Misericordia di Udine?

«Complessivamente sono 37 ma in sedi diverse e mission diverse».

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Ovvero?
«In accordo con la Regione, nel cercare di pianificare la gestione dell’emergenza che avremmo dovuto affrontare e approfittando del fatto che l’epidemia da coronavirus è arrivata da noi più tardi e ci ha dato quindi modo di prepararci, abbiamo definito un piano utile a potenziare la risposta della terapia intensiva. La scelta che abbiamo compiuto è stata quella di riservare 12 posti letto, localizzati ai piani superiori rispetto al pronto soccorso, esclusivamente ai pazienti affetti da Covid-19. Nel nuovo ospedale ci sono poi 16 posti letto già operativi e 9 di prossima attivazione. Attualmente i ricoverati nelle terapie intensive per Covid-19 sono 11 a Udine, poi 4 a Trieste e due a Pordenone».

Altre misure?
«Sono stati diversificati anche i percorsi di accesso al pronto soccorso, per evitare contatti tra pazienti che manifestano sintomi che possano far pensare al coronavirus, e quelli che hanno patologie diverse. Ci sono poi altri reparti, come l’infettivologia, che si occupano di persone affette da Covid-19, e c’è già un piano per l’ulteriore espansione di posti letto dedicati, se questo fosse necessario».

È stata ridotta anche l’attività chirurgica per evitare di “stressare” la terapia intensiva?
«Al di là delle disposizioni ministeriali, la direzione dell’Azienda sanitaria universitaria Friuli centrale già da lunedì aveva disposto la riduzione delle attività chirurgiche fatta eccezione per gli interventi neoplastici, salvavita, emergenze e urgenze. Una motivazione è certamente quella di evitare di sovraccaricare le terapie intensive, ma anche per poter reperire anestesisti e personale infermieristico per aumentare i posti letto di terapia intensiva, oltre che a ridurre il numero di pazienti presenti in ospedale».

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Questo è il momento dell’emergenza e quindi è qui che ci si deve concentrare?
«Esattamente, dedichiamo attenzione ed energie a questo, e non a ciò che può essere rimandato, senza pregiudizio per le persone. E questo avviene a Udine come nel resto della regione».

C’è la disponibilità del Friuli Venezia Giulia ad accogliere pazienti da altre regioni i cui reparti intensivi sono oggettivamente in difficoltà a causa del coronavirus. A oggi quanti ne sono arrivati?
«A Udine abbiamo accolto un paziente proveniente da Cremona, positivo al virus, al Cattinara sono arrivati altri pazienti dalla Lombardia che avevano necessità del ricovero in terapia intensiva generale, non quindi affetti da Sars-CoV-2. Dopodiché si vedrà...».

Secondo lei come andrà?

«Bella domanda, se avessi la risposta equivarrebbe ad aver vinto il Superenalotto. Credo che una situazione di questo genere nessuno se l’aspettasse, sinceramente nemmeno io. È vero che, di fatto, è come un’influenza, perché le persone guariscono. Ciò che diversifica questa epidemia sono le complicanze, anche molto gravi, che portano i pazienti in terapia intensiva. Qui vediamo come la manifestazione della malattia possa essere impressionante. L’altro elemento di criticità è determinato dalla velocità di contagio e dal numero di casi complessi. Da questo punto di vista è una maxi-emergenza. Un conto è soccorrere mille pazienti in 4 mesi, un altro è farlo in 10 giorni».

Come vive questa emergenza?

«Devo ammettere che la vivo un po’ male perché per il ruolo che ricopro devo occuparmi di organizzazione, gestione e coordinamento, tutti compiti che mi tengono lontano dal campo dove i miei colleghi e gli infermieri si adoperano tutti i giorni, e sono ammirevoli. Lavorare come stanno lavorando, bardati con scafandri e mascherine che rendono difficoltosa un’attività che già semplice non è... sono davvero bravissimi. Abbiamo dovuto rivedere i turni e definire una sosta ogni 3 ore per consentire loro di uscire dal reparto e fermarsi un attimo, perché lavorare con i dispositivi di isolamento è massacrante. Ribadisco: sono bravissimi e dimostrano ogni giorno la loro altissima professionalità e dedizione».

Che ne pensa delle raccolte di fondi a favore della terapia intensiva?
«È un’iniziativa che, emotivamente, mi ha molto colpito. Ho vissuto il periodo del terremoto e ho già avuto modo di apprezzare la solidarietà del popolo friulano. Ciò che è particolarmente bello e commovente questa volta è che l’iniziativa sia partita da ragazzi. Ci sono studenti di medicina che mi contattano per sapere come fare, altre persone che chiedono indicazioni... È come se in molti avessero preso coscienza ora, per la prima volta, di che cosa sia la terapia intensiva. Nell’elenco delle donazioni ci sono piccole cifre, che arrivano probabilmente da ragazzi, e anche donazioni importanti. Oltre a questo ci sono pizzerie che consegnano pizze gratis alle persone che stanno facendo i turni. Chi dona macchine del caffè e cialde per i reparti di terapia intensiva e infettivi. La gente friulana ha capito che chi è qui sta dando davvero tutto se stesso e vuole essere vicina come può. Una cosa incredibile...».

Un insegnamento...

«Questa epidemia ci lascerà qualcosa, forse ci servirà per prendere coscienza di che cosa significhino solidarietà, unione... e a comprendere che, davanti alle difficoltà, occorre fare fronte comune. Ne trarremo una lezione umana, oltre che politica e sociale».

Avete necessità particolari?

«La Regione Friuli Venezia Giulia devo dire che si è mossa con grande rapidità e ha subito avviato le procedure necessarie per attrezzare ulteriori 20 posti letto di terapia intensiva. Se si considera che un posto letto vale tra gli 80 e i 100 mila euro, si capisce come lo sforzo compiuto dalla Regione sia stato notevole. Questo potenziamento serve ora, per la gestione dell’emergenza, e resterà poi come ulteriore risorsa dei nostri ospedali».

Dottor De Monte, parliamo di farmaci. Si dice del possibile utilizzo di specialità destinate a trattare altre patologie, dall’artrite alle neoplasie, che risulterebbero efficaci contro Covid-19. Voi che cosa fate?

«In premessa va detto che una terapia di provata efficacia a oggi non c’è. Detto ciò, noi abbiamo una collaborazione costante con la Clinica di infettivologia e una unità di crisi che giornalmente si incontra e decide come muoversi in relazione alla terapia e agli adeguamenti organizzativi da attuare. È difficile affermare se un farmaco specifico sia davvero efficace, le risposte le avremo dopo».

Essendo Sars-CoV-20 un virus, non ci sarà altra terapia efficace se non un vaccino?

«Non sono un esperto di malattie infettive, ma credo che il vaccino avrà la sua portata. Essendo anche un virus nuovo, dovrà verificarsi quella che viene definita “immunità di gregge” per evitare il ripetersi di una epidemia. È anche possibile che, come accade per l’influenza, c’è chi la contrae e chi no, magari perché in passato è entrato in contatto con il virus e si è immunizzato. Sono andato a rileggermi quel che accadde con la famosa Spagnola che provocò 100 milioni di morti e all’epoca non c’era conoscenza scientifica, non c’era tecnologia, non c’erano farmaci. Se non avessimo il sistema sanitario che abbiamo, le conoscenze, la tecnologia, la sensibilità della popolazione, sinceramente non so quanti morti avremmo potuto contare oggi».

Fa discutere, e riflettere, la considerazione di un medico lombardo di terapia intensiva che richiama la medicina in tempi di guerra dove si deve scegliere tra chi operare e chi no, e quindi tra chi salvare e chi lasciar andare. Secondo lei?

«Nell’ambito della scienza medica e nella deontologia medica si dice chiaramente che le terapie devono essere proporzionali. Non possiamo pensare che tutte le persone debbano essere intubate. La vita ha un termine e l’appuntamento con il fine vita ce l’abbiamo tutti. Le faccio un esempio. Una persona che vive allettata, al di là dell’età, che ha una carenza di risorse immunitarie, si prende l’influenza e muore, ciò rientra nel decorso della vita clinica di questa persona. Ogni giorno negli ospedali un certo numero di degenti muore, e non in terapia intensiva, né veniamo chiamati per rianimarle: sono persone arrivate alla fine della loro vita. Anche in questa situazione ci si può trovare di fronte a persone che sono arrivate alla fine della loro esistenza e imporre loro cure intensive non avrebbe senso, sarebbe accanimento terapeutico. Non dimenticherei nemmeno che la ventilazione meccanica e l’intubazione con ricovero in terapia intensiva non necessariamente portano al successo. Purtroppo il 20-25% delle persone non esce dalla terapia intensiva. E lo stress della ventilazione meccanica prolungata diventa esso stesso causa di complicanze che possono portare alla morte. In sostanza “non viene negato il tubo”, ma una cura non adeguata. Oggi abbiamo in terapia intensiva una persona di 85 anni, la stiamo trattando e risponde bene. Abbiamo accolto anche pazienti più gravi, già compromessi, che non ce l’hanno fatta. Non si guarda l’età ma qual è la terapia più proporzionata e indicata per quella specifica persona».

Infine: si muore “per” o si muore “con” il coronavirus?

«Non lo sappiamo ancora. Ciò che sappiamo è che il coronavirus dimostra di avere una predilezione per il polmone che tende a compromettere determinando l’insorgenza di una insufficienza respiratoria importante. La terapia intensiva serve per concedere il tempo alle persone, grazie alle terapie e alla risposta fisiologica, per recuperare e guarire».

La patologia è una forma di polmonite?

«Si chiama polmonite interstiziale ed è una infiammazione che determina un ispessimento della membrana polmonare a causa del quale viene ostacolato il passaggio dell’ossigeno dall’alveolo al sangue mentre l’anidride carbonica riesce a uscire».

Ed essendo di origine virale l’antibiotico non serve.

«L’antibiotico non è efficace contro il virus, anche se la terapia antibiotica è comunque presente per evitare le complicanze infettive, di origine batterica, che sono un rischio della ventilazione meccanica».

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