Il regista Lorenzo Bianchini torna al cinema con La memoria del buio: «Vi racconto il mio neoralismo delle paure»
Il cineasta udinese udinese sul set nella villa che ospitò Pasteur: «È la storia di un fotografo che scopre strane banconote»
Lui è il regista che più di altri ricrea al cinema la paura per indagare con meticolosità le nostre intimità, proprio laddove tutto si genera. «Io la paura cerco di esorcizzarla — spiega il friulano Lorenzo Bianchini, dietro la cinepresa per amore e autore di alcune pellicole diventate un punto di riferimento horror della cinematografia indipendente quali “Lidrîs cuadrade di trê” e, l’ultimo della collezione, “L'angelo dei muri” — attraverso un pensiero profondo applicabile alla psiche umana che voglio esaltare a prescindere da qualunque trama».
Sta per rivelarsi l’ennesima sfida dal titolo “La memoria del buio”. Ne parliamo?
«La ricerca continua ed è necessario sia così. È una pellicola a basso budget prodotta dall’Arte Video di Palmanova. Sarà distribuita dalla Minerva pictures. È in corso il doppiaggio in dieci lingue».
Le intenzioni, allora, sono bellicose?
«Immagino ci credano fortemente i dirigenti della Minerva, altrimenti mai si sarebbero sobbarcati questo lavoro. Per carità, la felicità è tanta quando scopri che una cosa tua girerà il mondo. Giusto per anticipare una sua probabile domanda, le spiego dove ho scelto di allestire il set: nell’amideria Chiozza di Perteole, un edificio del 1865 utilizzato dall’azienda per l’estrazione dell’amido da frumento, mais e riso. Compagno di classe del fondatore Luigi fu il celebre chimico francese Louis Pasteur che visse un anno in Friuli per studiare la cura della Pebrina, la malattia del baco da seta. Tantissima storia che produce fascino».
Uno dei titoli che le affibbiano è “regista cult”. Le garba?
«Se lo dicono gli altri, per carità, fa piacere, anche se mi vergogno un po’».
In che senso, scusi?
«Vivo nel mio mondo, adoro fare cinema e cerco, per quanto posso, di restituire quello che il territorio mi ha sempre donato. Per i titoli sono il meno competente».
Possiamo dare una sbirciata alla sua nuova opera?
«Ma certo. La location è meravigliosa, perfetta per adattarsi a una vicenda inquietante, vissuta specialmente di notte ed esaltata dalla flebile luce usata per incorniciare la storia di un fotografo che nei suoi scatti di archeologia industriale scopre delle banconote sparse per questo luogo strano. La ricerca della verità lo obbligherà a scontrarsi con una realtà inaspettata. Talvolta le riprese si sono protratte fino all’alba. Come aver vissuto un film dentro un altro film, mi creda».
Chiamiamo in causa Truffaut e il suo “Effetto notte”?
«Diciamo che ci può stare, nonostante il “suo” effetto sia ben diverso. Il “nostro”, invece, è stato molto più naturale, diciamo. Chiamare in causa un mito è comunque sempre piacevole».
Il cast?
«Paolo Fagiolo e Marco Marchese sono i due attori. Il direttore della fotografia è Alessandro Galliera, mentre Lorenzo Bregant è il fonico e l’autore della colonna sonora».
Qual è il movente del suo stile cupo?
«L’ho definito il “neorealismo delle paure” perché sono vere, sgorgano da ogni animo umano con naturalezza, niente di posticcio. Sono nato a Monteprato, un paese di montagna, i nonni mi raccontavano fiabe in sintonia con la location, ovverosia per nulla serene, ecco. Questa è stata la base su cui hanno appoggiato, in gioventù, molti film tipo Dracula, Belfagor, Frankenstein, La Mummia e tutti gli horror dei Settanta oltre ai western. Un po’ di tutto con prevalenza di opere angoscianti».
Sala o piattaforma? Adesso bisogna chiedere.
«Non è semplice uscire al cinema, la distribuzione è condizionata dall’invasione americana. La prospettiva che il mio film sarà visto in molti Paesi del mondo è indubbiamente eccitante».
Le sceneggiature sono firmate sempre da lei?
«Sì, assieme a mia sorella Michela. Siamo in ottima sintonia».
All’orizzonte?
«C’è un altro film, peraltro già scritto. Titolo: “L’ultima consegna”».
Infaticabili voi di famiglia?
«Non possiamo permetterci di oziare».
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