Il terremoto ad Attimis e Faedis: «Era un inferno»

ATTMIS-FAEDIS. Nella notte più sconvolgente del Friuli, la paura invase anche le vallate tra Attimis e Faedis. Nella sala parrocchiale separata da quella cinematografica da un pannello fonoassorbente, la prima scossa venne appena avvertita. Sembrava una cosa da nulla.
Se non fosse stato per la titolare del bar vicino che si precipitò a bussare sulla porta gridando «il terremoto», i componenti del consiglio direttivo uscente della Pro loco non si sarebbero neppure mossi.
«La voce della signora arrivò forte e chiara, ma era già tardi. Un secondo dopo giunse la seconda scossa, uscimmo. Iniziai a correre verso casa, l’argine del torrente Malina si muoveva come un serpente». Degano ha ancora davanti agli occhi quell’immagine: «Vedere un argine largo 80 centimetri muoversi in quel modo era impressionante».
Sui volti della gente solo la paura anche se Attimis, a differenza delle zone più colpite, non aveva avuto morti. Da subito i luoghi all’aperto erano diventi centri di coordinamento spontanei e qui Degano decise con il sindaco, Giulio Emerati, di coinvolgere i militari. I 200 Cacciatori delle Alpi presenti in quel momento nella caserma di Attimis non esitarono a mettersi al servizio della popolazione che, nel frattempo, aveva trovato riparo nelle automobili. Tutto intorno la distruzione.
Diversi i crolli, moltissime le case lesionate. «I danni veri li vedemmo il giorno dopo - continua Degano - quando a bordo di un fuoristrada militare facemmo il giro delle frazioni. Subit era la più danneggiata. L’edilizia povera di Porzûs, invece, registrò meno danni perché la striscia di roccia sulla quale è adagiato il paese, si mosse in modo compatto».
Con il quadro dei danni più o meno completo alla mano, il sindaco e il suo vice ritirarono dagli scaffali tutti i prodotti alimentari a lunga conservazione e li portarono negli spogliatoi del campo sportivo dove da lì a poco sarebbe stata allestita la tendopoli.
«Nominammo un capo tendopoli che passava a ritirare le razioni - continua Degano -, mentre gli uomini della Forestale recapitavano i pranzi nelle frazioni». A coordinare l’arrivo delle tende militari fu un capitano distaccato dall’Esercito in municipio: «Teneva i contatti con la Prefettura, la Caserma e il Comune» aggiunge l’ex vicesindaco citando un caso simbolo a conferma che la gente, nonostante il rischio crolli, non voleva abbandonare le case.
«Patriarca, il titolare dell’omonima fabbrica di cucine, ci mise a disposizione i terreni per realizzare un campo per la sosta delle roulotte. Il Comune ne acquistò 30 a prezzo di favore, ma la gente non volle spostarsi e restarono vuote. Fummo costretti a portarle nei cortili e nelle borgate».
Mai un dubbio emerse tra gli abitanti, neppure quando «l’amministrazione propose agli abitanti nelle nove borgate di Forame collegate da viuzze, di spostarsi a Salandri. Donne e uomini risposero “no, noi le case le ricostruiamo dove erano”». Attimis, ricorda sempre l’ex vicesindaco, «fu uno dei pochi comuni ad approvare i piani particolareggiati frazione per frazione. Questo ci consentì di allargare le strade e di mantenere l’impianto urbanistico».

In quell’estate le sedute dei consigli comunali venivano convocate una a settimana. «Le decisioni urbanistiche e la gestione degli aiuti erano temi scottanti» ricorda Degano soffermandosi su un dato politico non di poco conto: «La coalizione formata da Dc e Psdi, l’anno prima, aveva vinto le elezioni per due voti».
Negli anni successivi, Degano governò per due anni con 7 voti su 15. «Entravo in consiglio - rivela - e non sapevo se sarei uscito da sindaco. Riuscii a tirare avanti solo perché i due consiglieri usciti dalla maggioranza non partecipavano alle sedute».
Tra discussione e valutazioni, il Comune di Attimis la notte di Natale 1976 consegnò i primi prefabbricati a Subit. Li aveva realizzati l’impresa inviata dal Governo e dalla Croce rossa svizzera. «Erano velocissimi, ci incitavano ad approvare i progetti» continua Degano senza dimenticare il cantiere numero due allestito dagli alpini dell’Ana. «La presenza degli alpini fu un sostegno per la popolazione perché sfido chiunque a dire che non aveva paura».
Il terrore che potesse tornare un’altra scossa d’intensità uguale o superiore a quella del 6 maggio era palpabile. «Vidi gente scappare dalle tende, appena la terra iniziava a tremare correvano tutti. Era un fatto automatico».
In quei mesi, ad Attimis, entrarono in azione anche le ruspe, demolirono le case gravemente danneggiate che nelle strade strette rappresentavano un pericolo per la popolazione.
«Un geometra del Genio civile firmava le ordinanze e una ditta di Bologna che aveva messo a disposizione i mezzi, procedeva. Pochi si opposero». Furono demoliti pure la chiesa e il campanile di Subit.
Analoga la situazione a Faedis anche se qui la paura fece un morto. Il cuore di Ciro Cont, il sacrestano del paese, smise improvvisamente di battere qualche giorno dopo il 6 maggio. Quella notte il sindaco Celledoni non si rese conto del disastro, si mise le mani nei capelli il giorno dopo quando, assieme al comandante dei carabinieri, arrivò a Canebola e trovò la frazione completamente distrutta.
Ma non era ancora finita perché la sera dell’8 maggio, il sindaco venne nuovamente allertato dai carabinieri: «”Si alzi, andiamo, a Campeglio - mi dissero - è un disastro”. Era così. Mille persone non avevano più un riparo. Una scossa di assestamento, accompagnata da un boato, provocò il crollo della frazione».

Celledoni, che all’epoca aveva appena 30 anni, non si perse d’animo. Andò in prefettura, ma la sua situazione era meno grave di altre. «”Lei ha morti?” mi chiedevano, “dobbiamo pensare prima a quelli”. Era un caos, non avevo le tende e la gente brontolava» racconta ammettendo di essere riuscito a ottenere le tende con qualche giorno di anticipo solo grazie ad alcune conoscenze legate alla Democrazia cristiana.
Ma anche questa non fu un’impresa facile perché l’autista del camion si fermò a Povoletto e scaricò qui il carico destinato ad Attimis. «Disperato andai a cercare il sindaco di Povoletto: “la mia gente non ha un alloggio” dissi a Ballico, questo il suo cognome, il quale ordinò di portare le tende da noi. Merita ancora oggi un grande ringraziamento».
A decidere le sorti di Campeglio fu Sanson, l’imprenditore dei gelati, che si innamorò della frazione arrampicata sui monti e decise di «mantenere tutti i terremotati di Campeglio. Forniva tutto, si era organizzato con due cuoche e con il personale delle pulizie. Quando i terremotati uscirono dall’accampamento, Sanson mi disse che avrebbe voluto costruire uno stabilimento nel comune di Faedis». Il progetto non andò in porto. «Il collocatore lo denunciò perché non aveva assicurato le donne di Campeglio che assistevano i terremotati».
A Canebola andò diversamente. Nell’altra frazione a poco più di 4 chilometri di distanza da Faedis, arrivarono i tecnici della Provincia autonoma di Trento. «Mi invitarono, a loro spese, a scegliere i prefabbricati, “decida - mi dissero - quali sono i più adatti per quel luogo”. In tre giorni preparano i progetti, fecero un lavoro che da noi avrebbe richiesto almeno tre mesi» continua Celledoni ancora oggi fiero di aver potuto consegna le chiavi già a Natale 1976.
Fu una stagione frenetica. In municipio arrivavano aiuti da ogni dove, anche alcune signore facoltose, tra cui un’erede dei conti Zucco, consegnarono nelle mani del sindaco assegni e misero a disposizione dei terremotati alcuni prefabbricati.
A settembre la terra tornò a tremare violentemente. Sorprese alcuni tecnici della Provincia di Bolzano al lavoro sulla cella campanaria di Canebola. «Vidi il campanile piegarsi con loro a cavalcioni sul parapetto. Tutto intorno il rumore delle frane che scendevano dalle montagne» racconta l’ex sindaco rimasto in carica 16 anni.
E ancora: «Quando scesero dalla cella campanaria ordinarono mezzo litro di grappa». In questo angolo di Friuli c’è anche una zona dove si parlava slavo e questo fatto attirò l’attenzione dell’allora Jugoslavia. Nel Canale di Grifò, dopo l’ultimo ponte, viveva una comunità d’etnia slava e la Jugoslavia gli offrì i prefabbricati.
Fu la gente a decidere con i tecnici dove installarli e a chi assegnarli. «Lo scoprii a cose fatte - racconta l’ex sindaco - quando ricevetti la comunicazione che mi informava sulla situazione di Canebola. Era una situazione pericolosa, un enorme masso, grande come una stanza, era caduto dalla montagna e si era fermato davanti alla porta di un prefabbricato».
Messa in sicurezza la zona, il sindaco fu preso da un momento di sconforto. «Ero solo, incontrai l’onorevole Lizzero e mi misi a piangere. Non sapevo cosa fare, le stalle erano vuote, gli animali erano stati portati altrove, e un contadino era venuto da me a dirmi “sono stato a Orsaria a vedere delle mie bestie, mi hanno riconosciuto e io ho iniziato a piangere”».
Ancora una volta il sindaco non si perse d’animo e decise di andare a bussare alle porte dei palazzi romani. «Andavo a Roma, nei ministeri, quasi tutte le settimane. Portavo anche qualche bottiglia di grappa». Ottenne quello che doveva ottenere per avviare la ricostruzione.
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