In Italia solo un medico su tre è disposto a fare i tamponi rapidi: in Fvg adesione del 51 per cento dei dottori

La Valle d’Aosta è la Regione più virtuosa, la Toscana e le Marche sono invece le peggiori. E l’assistenza a casa dei malati non decolla. Al 31 ottobre avviate meno del 50% delle Usca, in regione 7 su 24

ROMA. Il tampone dal medico di famiglia ha fatto flop. In teoria poco più di un assistito su tre ha oggi la possibilità di bussare alla porta del proprio dottore per farsi fare un tampone rapido.

Nella realtà in molti casi quel 38% di loro che ha dato la disponibilità a farli non è ancora passato dalle parole ai fatti, aspettando che la propria Asl gli indichi un luogo più sicuro del proprio studio dove “tamponare” i propri pazienti, senza rischiare di infettare chi è in sala d’attesa per curare altri malanni. Così a un mese dalla firma dell’accordo tra la principale sigla di categoria, la Fimmg e la Sisac, l’organismo delle Regioni che regola la convenzione dei medici di base si è ancora punto e a capo.

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Il quadro non proprio confortante emerge dall’indagine condotta dal nostro giornale consultando le Regioni, che per una volta hanno risposto in massa, con le sole eccezioni di Calabria e Provincia di Bolzano, fornendo dettagli anche sullo stato dell’arte delle Usca. Le “unità speciali di continuità assistenziale”, fatte di medici e infermieri imbracati nelle tute bianche antivirus, che dovrebbero andare ad assistere gli oltre 750mila positivi in isolamento domiciliare che quando iniziano ad avere sintomi non sanno a che santo votarsi.



«Al 31 ottobre ne erano state avviate meno del 50%» ha tuonato la Corte dei Conti nel report del quale abbiamo riferito ieri. Il decreto legge che le ha istituite a marzo ne prevedeva una ogni 50mila abitanti. In tutto, rapportato alla popolazione italiana fanno 1.204 «squadre speciali».

C’è da dire che in questi giorni le regioni si sono rimboccate le maniche e a oggi, da nord al sud dello Stivale, se ne contano persino di più: 1.312. Ma non è tutto oro quello che luccica. Prima di tutto per le forti differenze regionali. Perché se alcune regioni come Piemonte, Valle d’Aosta, Lazio, Toscana, Marche, Campania, Basilicata, Sicilia e Sardegna ne hanno realizzate anche più di quel che il decreto indicava, le altre sono tutte sotto soglia e l’Abruzzo in pari. La Lombardia ne ha 157 anziché 202, il Veneto ne ha attivate 51 su 98, il Friuli 7 su 24.

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Il vero problema, però, non è quante sono, ma cosa fanno. Secondo lo stesso decreto di marzo dovrebbero garantire la gestione domiciliare dei pazienti Covid che non hanno bisogno di ricovero.

Ed essere composte dai più esperti medici di famiglia, da quelli di guardia medica, dagli infermieri e dagli assistenti sociali. In molti casi invece le Usca corrono più da una parte all’altra a fare tamponi che ad assistere, i medici di famiglia se ne sono spesso rimasti nei loro studi e di assistenti sociali «ne sono stati assunti 150 sui 604 previsti», denuncia Gianmario Gazzi, presidente nazionale dell’Ordine della categoria.

«Il Piemonte li ha integrati nelle Usca, ma in larga parte delle regioni – spiega – non è stato così. Eppure è l’assistente sociale che sa chi deve attivare quando c’è da portare la spesa a un anziano solo o organizzare l’assistenza al figlio malato di genitori positivi». «Tempo fa – racconta – un adolescente è rimasto solo a casa perché entrambi i genitori erano stati ricoverati per Covid. Poi magari il problema lo risolvono gli stessi medici e infermieri delle Usca, ma così finiscono per essere distratti dal loro compito principale, che è quello di fare diagnosi e somministrare cure».

Le cose vanno peggio se andiamo a vedere come sta andando l’operazione “test rapidi dal medico di famiglia”. Se andiamo a vedere la media nazionale siamo intorno al 38% di adesioni. Ma anche in questo caso regione che vai situazione che trovi. Perché se Valle d’Aosta e Trento dichiarano di aver fatto il pieno, con il 100% di adesioni, Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata e Sardegna non sanno ancora su quanti dottori potranno contare perché gli accordi territoriali con i diretti interessati li hanno firmati da poco.

Il Piemonte è fermo al 35%, la Lombardia al 25, la Toscana al 16 e le Marche a un misero 8% di dottori che hanno detto presente. Ma molti di quelli che hanno fatto il passo avanti lo hanno poi subito ritirato indietro, adducendo tutti la stessa motivazione: «Dovete fornirci locali adatti fuori dai nostri studi dove fare i test in sicurezza». E molte regioni si stanno facendo in quattro per trovarglieli. Anche se forse sarebbe bastato dire nel contratto firmato il mese scorso che i tamponi, retribuiti extra, si potevano fare appunto in sicurezza fuori da quelle striminzite 15 ore di apertura settimanali degli studi medici.

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